Sonia Arienta – ZimmerFrei. La domesticazione degli spazi

03_Piazza Maggiore_sdraiati su crescentone_1

ZimmerFrei. La domesticazione degli spazi – Sonia Arienta – Drammaturgie Urbane – Novembre 2021

I PUNTATA

ZimmerFrei è una realtà molto conosciuta in Italia e all’estero, impegnata sul piano della ricerca e dell’esplorazione applicata agli spazi urbani e non solo, attraverso filmati, fotografie, videoinstallazioni, interventi di ascolto sul campo. Un’attività che si svolge ormai da un ventennio (il gruppo è stato fondato nel 2000, a  Bologna), con un lavoro molto consistente all’attivo, solidità di pensiero, di esperienza, coniugati a una capacità di ripensare, ridiscutere le loro metodologie di lavoro e le loro proposte nel tempo.

Ci rivolgiamo allora ad Anna de Manincor e a Massimo Carozzi, i due fondatori, per sapere che cosa ci possono dire riguardo le nostre ormai “canoniche” parole chiave: Spazio, Personaggi, Trame-intreccio, rapporto con il Pubblico, definizione del termine “Drammaturgia Urbana”.

Inizio quindi con il chiedere ad Anna come si relazioni con il termine

Drammaturgia Urbana

A: “Difficilissimo. Passiamo alla seconda.”

Propongo allora il secondo punto, riguardante lo

SPAZIO

e chiedo: Come vi relazionate con lo spazio, che cosa rappresenta per voi, quando pensate a una produzione? Mi puoi fare esempi pratici riguardo a come usate lo spazio urbano, naturale, rurale, domestico, quello che volete….Dimmi tutto quello che vuoi insomma sullo Spazio.

A: Risata. Vorresti un pamphlet?

S: No vorrei delle immagini di quello che pensate. Non voglio risposte accademiche, ma spontanee e dette nella massima e assoluta libertà. Nel vostro lavoro, ho visto un’esplorazione a tutto campo di spazi urbani e non solo e sono molto curiosa di sapere come agite, come vi muovete. Puoi partire da un esempio, o puoi dirmi che cosa ti colpisce di più dello spazio, di come lo senti/vedi.

A: Nel documentario a episodi Saga, il soggetto è costituito da ragazzi e ragazze che rappresentano un nuovo tipo di cittadinanza. Alcuni sono immigrati di prima generazione, nuovi arrivati. Qualcuno è venuto a Bologna per studiare, altri sono nati qui per puro caso. Il documentario voleva essere uno sguardo su una generazione con cui finora non avevamo avuto contatto.

Noi abbiamo cinquant’anni, frequentiamo i bambini tardivi dei nostri coetanei, siamo due generazioni totalmente distanti. Volevamo vedere come si trasforma chi da teenager diventa adulto. Una specie di cittadinanza condivisa tra coetanei, nata dall’esperienza di crescere in un posto specifico, al di là del luogo da cui parti.

Questa era la nostra intenzione, quando sono usciti gli episodi qualcuno ci ha detto che avevamo fatto nuovamente un ritratto di città. Dopo Marsiglia, Mutonia, il CERN, una Bologna ad altezza dello sguardo di questi quattro-cinque ragazzi e ragazze che avevamo messo al centro dell’attenzione. Perciò è come se il luogo fosse sempre una personalità tra quelle che noi abbiamo ripreso. Fra quelle viventi ce n’è un’altra anch’essa vivente, ma con un arco temporale che ci supera.”

S: E questa altra creatura è lo “spazio”.

A: “In questo senso, per noi è stato interessante fare un ritratto della città di cui noi siamo adottivi. Siamo diventati abitanti, cittadini, attraverso lo sguardo di qualcun altro, per interposta persona, un ritratto, tuttavia, involontario, perché non era nostra intenzione farlo. Ecco, questa modalità di guardare qualcosa per “interposta persona” credo sia qualcosa che stiamo provando a fare da un po’ di tempo.

Non è una cosa che abbiamo deciso, ce ne stiamo accorgendo ora. Sia per la serie di performance e l’installazione video Family Affair, incentrata sul ritratto di famiglia, con gruppi famigliari e di convivenza di tutti i tipi; sia per i documentari, che riguardino luoghi conosciuti o che non abbiamo mai abitato, abbiamo bisogno di più di una “interposta persona”. Ne adottiamo la posizione, il punto di vista da cui sporgerci per guardare e di solito di ascoltare, prima di filmare.

I luoghi che usiamo sono principalmente i posti dove abitiamo, dove viviamo, anche temporaneamente. Non sono un oggetto su cui ci mettiamo a ragionare: sono tutto. Non puoi fare a meno di vivere se non c’è un luogo in cui vivi. Se facciamo un film, una serie fotografica o un’intervista siamo in un luogo. Non ci siamo ancora smaterializzati!

Un’altra questione che ci siamo posti da lungo tempo è come funziona la domesticazione degli spazi. Fino a due anni fa siamo stati molto mobili, spesso anche “spaesati”, per quanto con il beneficio, un vero e proprio privilegio esistenziale, di accendere e spegnere la condizione di expat appartenenti all’élite intellettuale (ride). Non si tratta quindi di un vero spaesamento da sradicamento, ma di una piccola ricostruzione domestica di ciò che ti circonda, quando non hai il tempo per esplorare e devi subito produrre, vedere, scoprire.

Frame dal film doc a episodi “Saga”. Sdraiati sul Crescentone. Bologna. 2017-2020

Hai invece un tempo molto breve, compresso per instaurare una dimestichezza con un luogo totalmente estraneo. Questa è una piccola procedura di domesticazione. In questa situazione, per esempio, Massimo fa il suo lavoro preliminare eleggendo un bar o un tabaccaio come punto di riferimento, io compro una tazza e uno strofinaccio da cucina, uno spremiagrumi di metallo o di vetro, ne ho vari…

Molti film-ritratto di città partivano da un luogo stazionario, per esempio i progetti Temporary Cities. Noi tentiamo di prendere tempo e di solito ne perdiamo un sacco, troviamo un luogo privilegiato di osservazione che di solito è un caffè, una collina, una vetrina, un dock di un porto, o la casa di qualcuno. Un posto dove torniamo ripetutamente e che diventa una specie di luogo di deposito, dove facciamo altro. Nel frattempo stratifichiamo qualche cosa che ci fa riconoscere i posti e familiarizzare con i medesimi.

Questo processo di domesticazione, in particolare nell’ultimo film Saga, ha avuto alcune coincidenze con le strategie di adattamento attuate dalle persone che abbiamo seguito. Per esempio, con quelle di Yakub, un ragazzo nigeriano che aveva diciassette anni quando è arrivato a Bologna e che noi abbiamo seguito da allora, ora ne ha venti e passa. All’inizio parlava poco l’italiano, si esprimeva in inglese. Diceva che non gli piaceva il dormitorio dove stava, così camminava tutto il giorno.

Puntava verso il centro e camminava perché dal posto dove veniva lui, Edo State in Nigeria, si dice che se non hai niente da fare è meglio “camminare per niente piuttosto che stare fermi per niente”. Questo gli ha salvato la vita in più di un’occasione, perché pare che ogni volta che succedevano cose gravi, Yakub era sempre da qualche altra parte. Quindi, partito a sedici anni da casa, aveva camminato sempre, fino ad arrivare fin qui, a Bologna. Man mano che ci raccontava tutto questo, si sdraiava sempre più sul “crescentone”, questa specie di grande focaccia di pietra, nel centro della piazza Maggiore di Bologna.

Diceva di essere stanco che tutti gli chiedessero la stessa cosa, cioè da dove venisse. “E dopo che te l’ho detto?” si domandava “Se dico Nigeria, non sai neanche dov’è. È un paese grande tre volte l’Italia e non ti interessa, perciò che domanda fai?”. Quindi, per lui era molto più importante che gli si chiedesse quello che era successo dopo il suo arrivo, anziché quanto avvenuto prima.

Noi abbiamo aderito al suo proposito di non annoiarsi nel raccontare sempre la stessa storia. Di per sé si tratta di un’aspettativa totalmente indotta dal fatto che le persone inanellano pensieri simili a questi: “ti vedo strano, diverso da me e mi viene da chiederti da dove vieni.” Invece sarebbe meglio chiedere che cosa abbiamo in comune con l’altro. Per esempio “Abbiamo voglia di un gelato?”

Yakub aveva questo modo di familiarizzare con noi: indietreggiava sempre di più dalla camera e ci obbligava a seguirlo, per trovare la giusta distanza con cui lasciarsi guardare e si sdraiava fino ad assumere una posizione totalmente orizzontale.

Questo ci ha sempre molto incuriosito, perché di conseguenza abbiamo “sdraiato” sempre più, anche la camera, fino a una posizione rasoterra, tanto da dover ribaltare il cavalletto. Proprio questo continuare la ripresa da rasoterra ci ha dato un’impressione molto fisica, da sviluppare anche in altri lavori. Si tratta di trovare un “correlativo oggettivo”, si direbbe in poesia. Una cosa visibile che sta là e fa le veci di qualcos’altro che da dire è troppo complicato. In questo caso alludo alla conquista dello spazio palmo a palmo.

Il fatto che tu ti sdrai come un tappetino, a pelle di leopardo, per “fare casa” diventa molto significativo… Come nel momento in cui giochi “a tana” e ti spalmi, diventi invisibile, perché prendi la forma di quel posto così che nessuno ti noti. Ecco, questa compenetrazione, questo spiattellarsi, questo sdraiarsi per terra in una piazza mette in luce il potere ambivalente degli spazi collettivi.

Uno spazio pubblico è una vera piazza quando è calcata da tanti corpi, ma una piazza non è tale se non è lasciata libera. L’uso “improprio” di uno spazio pubblico, usato come se si fosse a casa propria, con la stessa dimestichezza e impudicizia, in realtà permette di sentire l’appartenenza a quel luogo, di poterlo chiamare casa. In realtà, per chi passa da lì, stai semplicemente tra i piedi, impedisci il passaggio, sei sconveniente, ossia brutto da vedere… per lo meno, da un punto di vista borghese.

Invece Yakub in quel metro quadrato si sentiva “nel suo”. È una cosa che io intenzionalmente noto a Bologna. Ci sono luoghi che permetto una specie di “accasamento” nello spazio pubblico. Questo rimanda a due espressioni verbali contrapposte: “usare uno spazio come fosse casa tua”, nel senso di prenditene cura, e il suo contrario “non sei mica a casa tua. Dove pensi di essere?”. Mi colpisce perché lo stesso oggetto “casa” è usato per esprimere due condizioni opposte.

La doppiezza di certi gesti, modi di sentirsi è qualcosa che attraversa vari lavori, Domestic exiles, À  travers les murs, sono un altro travaso di spazi privati e spazi pubblici. L’idea del secondo progetto,  era quella di fotografare alcuni interni e proiettarli all’esterno come vedendoli attraverso un buco. Non era nelle premesse ma è diventata una installazione permanente nel quartiere della Borsa a Bruxelles

Ovviamente avevamo in mente gli interni di Gordon Matta Clark e quel tipo di visionarietà. Fai dei buchi nei muri e vedi dall’altra parte. Matta Clark abbatteva le pareti, o agiva nei luoghi in corso di demolizione. La cosa sorprendente è vedere gli interni in esterno. Quando osservi le case abbattute, con le piastrelle, i manifesti attaccati, le mensole, ricevi un’emozione molto forte, perché è come se vedessi una radiografia di una vita, o una sezione di qualcosa dove si muovono “fantasmi”. C’è sempre molta nudità in questi interni resi pubblici.”

Anna sottolinea l’importanza del corpo “come una specie di misuratore di spazio o di appropriatore di spazio, centimetro per centimetro”, e sul fatto che “se hai insistito nel senso fisico della parola su quel metro quadrato, quel luogo ti riconosce quando torni. Come i cani che hanno segnato quello spazio, nonostante sia stato marcato da tante altre persone,” Così “non è ad uso esclusivo di qualcuno, però si è instaurato questo contatto fisico.”

Quindi, mi spiega che “A Bologna ci sono posti dove questa consuetudine di stare sdraiati è abbastanza condivisa e non si tratta solo dei parchi. Per esempio Piazza Verdi, la piazza dell’Università, del Teatro Comunale, dello spaccio, diventa una specie di “spiaggia”. Sai che è arrivata la primavera quando vedi gli studenti che iniziano a usare il pavé come un prato, oppure le scale della Montagnola, la discesa davanti a Sala Borsa, uno dei posti dove funziona meglio il wifi libero di Bologna.

In questo caso si tratta di una specie di stazione di comunicazione a cielo aperto, dove tutti comunicano con tutti, con i presenti e con i distanti; un posto frequentato da varie comunità, sia di provenienza, di comunità, sia di età. La leggera pendenza e i gradini predispongono a questo spiaggiamento.

Se diventi sensibile a un gesto fatto in uno spazio, inizi a riconoscerlo quando lo vedi, lo rubrichi. Diventa una sezione orizzontale che fai di un luogo. Naturalmente si tratta di visioni soggettive, interpretate, una torsione verso una cosa che ti interessa, perché per te è significativa, porta fuori cose non esplicite. Per esempio, aver bisogno di sentirsi nel tuo posto nella città, per comunicare che ci sei. Non puoi stare solo nel tuo appartamento, quindi vai spesso nel “tuo” posto, anche se ci resti per un minuto.

L’appropriazione dello spazio attraverso la postura delle persone, di contatto con il materiale di cui è fatto il luogo è molto interessante da osservare. Una postura quasi desueta adesso, ma che si riconosce molto nelle persone che vengono da altri luoghi è quella di appoggiarsi al muro con un piede, con la conseguenza di lasciare l’impronta sul muro, di sporcarlo. Una postura che a Bologna è sconsigliata perché i muri sono intonacati e rimane l’impronta. Dove invece i medesimi sono di pietra o mattone questa consuetudine diventa un perfetto sunto di free-standing e resting position.

Quest’uso resiste, in piazza Maggiore perché la pietra è alta fino a un metro, ed è la postura spesso adottata da gruppi di maschi, bolognesi e forestieri.

Massimo ti potrebbe parlare a lungo dei rapporti con i luoghi veicolati dal suono, attraverso registrazioni di lunga durata, perché questa è la caratteristica dell’immersione sonora dove tu, in movimento o da fermo, rimani concentrato solo sui suoni dell’ambiente, senza emettere altri suoni, senza parlare, senza altre azioni che non sia “captare” ciò che ascolti. Anche senza registrare.

(Prosegue la prossima settimana)…

II PUNTATA

Nell’articolo precedente, abbiamo inaugurato una serie di riflessioni con Anna de Manincor, fondatrice del collettivo ZimmerFrei di Bologna, insieme a Massimo Carozzi e ad Anna Rispoli, a proposito del concetto di Spazio. Riprendiamo quindi il discorso, in questa seconda parte dell’intervista-dialogo.

Chiedo ad Anna di parlarmi del rapporto che il loro collettivo ha con lo spazio, come lo usa e lo esplora.

A: “La relazione con lo spazio è emersa in modo molto forte nell’esperienza con Filmon Yemane, uno dei ragazzi che Zimmerfrei ha seguito nel progetto Saga. Filmon, proveniente dall’Eritrea, è diventato cittadino italiano alla fine del primo lockdown, in giugno 2020. A circa undici anni Filmon ha perduto la vista a causa di un’esplosione accidentale ed è venuto in Italia con un programma medico.

Il padre, che lo accompagnava, aveva un permesso di soggiorno temporaneo, ma quando gli è scaduto doveva decidere se rientrare in Eritrea con il figlio non vedente o lasciarlo in Italia e staccarsi da lui. Ha scelto la seconda soluzione.

Quindi il ragazzo ha vissuto in Italia, prima con una famiglia di connazionali, poi in una famiglia affidataria –  tutti parte delle sua nuova grande famiglia allargata – e ora è in un appartamento per studenti poiché sta finendo il secondo ciclo all’università. La sua domesticazione degli spazi” continua Anna “si basa su una conoscenza profonda degli spazi urbani che attraversiamo e utilizziamo, sono stati passaggi molto interessanti da far conoscere.

Abbiamo condiviso con lui alcune cose emerse dalla lettura di un libro di John M. Hull intitolato Il dono oscuro. Si tratta del diario di un docente di teologia diventato cieco da adulto. Nel diario racconta questa “altra” vita, in una maniera molto cruda, senza romanticismo sui super-sensi percettivi attribuiti e sviluppati dalle persone non vedenti.

Con Filmon abbiamo dovuto cambiare modo di girare, in particolare per quel che riguarda una soluzione che amiamo molto: i piani sequenza a seguire, nei quali abbiamo la schiena della persona inquadrata che occupa due terzi del campo, non vediamo la prospettiva centrale verso il cui fuoco ci stiamo dirigendo, ma rimaniamo agganciati alla schiena, mentre vediamo i due lati scorrere e ci guardiamo intorno.

Il nostro protagonista ha un modo di procedere diverso: non si affida alla vista per puntare un luogo e raggiungerlo nel modo più diretto, ma cammina lungo i perimetri, segue traiettorie che si interrompono, elaborate, saggia il terreno e non gli importa se fa la strada più lunga, o se va a sbattere contro qualche cosa.

Se non vedi, con dei piccoli colpi e scorrimenti con la punta del bastone, fai suonare ciò che ti circonda e recuperi la verticalità. Uno dei problemi dei non vedenti – non di Filmon che procede regale come un principe – è che hanno un lato più sensibile dell’altro e si torcono o si curvano, nella concentrazione di esaminare il percorso.

Filmon ci raccontava una cosa importante a proposito degli “aiuti” esterni. Aveva avuto sempre la fortuna di incontrare persone gentilissime che si proponevano di aiutarlo ad attraversare la strada, ma lo voleva e poteva fare da solo. Soprattutto poneva una questione fondamentale: come fidarsi di una persona estranea, sconosciuta, che gli aveva rivolto solo due sillabe.

Noi possiamo vedere chi ci parla, inquadrare la persona attraverso molti dettagli non verbali. Chi non vede non ha la possibilità di farsi un’idea di chi si sta proponendo, se non attraverso l’intonazione della voce, il modo di parlare, e c’è bisogno di un certo tempo.

Mi rendo conto che ora sto passando a un altro discorso, però con Filmon è stato molto interessante affrontare temi molto grandi che riguardano il film documentario in generale: come approcciare le persone, come costruire la fiducia, perché ti dovresti affidare a qualcun altro.

Quando escludiamo l’uso della vista dobbiamo ridiscutere il piano di alleanza anche per quanto riguarda la realizzazione del lavoro di ripresa. Se pensi allo spazio solo e sempre in termini visivi è molto limitante. Noi associamo lo spazio al paesaggio, a un luogo fisico e lo descriviamo sempre da un punto di vista visivo. Il paesaggio è una porzione di territorio osservato da un umano in situazione di calma e tranquillità. Se corri, non chiami quello stesso posto “paesaggio”.

In realtà, lo spazio è fatto del tempo che impieghi ad abitare il luogo. Anche al buio o mentre dormi. Questo è stato un aspetto interessante che ha ridato molta importanza alle nostre procedure di “avvicinamento”.

La registrazione, l’ascolto, implicano il costringersi a non fare nulla, ad aspettare prima di iniziare a riprendere. Guardarsi attorno può anche essere fuorviante: vedi quello che vuoi vedere. Hai una visione selettiva a priori, un preset stilizzato, vedi linee, pattern, tutto estetizzato. Invece, se per un po’ non guardi, ma stai fermo e assorbi, inizi a diventare parte di quel posto. In questo Massimo è maestro.

Questo approccio è uno degli strumenti che abbiamo usato durante un laboratorio, per arrivare al documentario Tentativi di esaurimento di alcuni luoghi bolognesi. Il titolo è ispirato a un libro di Georges Perec del 1974, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino.

Per Perec stare in un luogo non è esattamente osservare, è rubricare. Non solo devi guardare intorno, ma ascoltare quello che sta passando, suoni in movimento, un frammento di frase, e devi elencare solo quello, senza barare, senza inferire ciò che viene prima o dopo. Devi tenere a mente quello che hai sentito, noti le ricorrenze e le trascrivi in modo diverso rispetto alle cose che accadono una tantum.

In questo lavoro di elenco diventi un dattilografo pazzo. Devi impedirti di raccontare subito delle storie, elaborare personaggi, fare il “macchiettismo” della situazione. Devi superare l’ansia da prestazione che ti induce a estrarre immediatamente qualche cosa da una situazione.

Una situazione difficile da gestire se la proponi a qualcuno che frequenta un laboratorio per tre giorni. In ogni caso, è una procedura, una pratica presa in prestito, utile, in quanto antidoto al consumo estetico delle immagini. A questo siamo abituati, sia a causa del cambiamento di molti luoghi legati all’estrema mobilità e al consumo turistico, sia con l’adozione della forma snap shot con cui guardi fotograficamente qualsiasi cosa, anche se non la fotografi. Questo sguardo snap può essere divertente, fa parte delle tue note immaginarie, però può diventare riduzionista, estetizzante.”

S: Mi puoi dire qualcosa riguardo ad Argon e Temporaneamente Bucaletto? Vorrei capire meglio quei due progetti…

A: Argon è un progetto per il Museion di Bolzano. Abbiamo realizzato la proiezione sulla facciata, un video-wall e Fabrizio Favale ha creato una composizione coreografica all’interno del museo. Fabrizio ci aveva chiesto luoghi di ispirazione per la coreografia e noi ne avevamo proposti due e mezzo: uno era il sotterraneo del CERN, l’altro un cratere di un vulcano (con le mucche lì vicino che bevono acqua sulfurea).

Questi luoghi non hanno un rapporto fra loro, ma per la coreografia avevamo trovato un elemento di unione allo stadio inferiore della materia, quello degli elementi chimici e Argon è un elemento che si è imposto come se fosse un personaggio eroico in uno scenario omerico. Le immagini costituivano una forma di ispirazione reciproca.

Luoghi sotterranei, o comunque di comunicazione fra sottosuolo e superficie, fra infinitamente grande e infinitamente piccolo, fra la terra e il sostrato. La coreografia lavorava su temi analoghi riferiti all’interno del corpo, delle viscere, su alcuni elementi di rarefazione, in particolare l’aria. Nel complesso era un lavoro di trasfusione fra architettura e coreografia.

Temporaneamente Bucaletto invece funziona come Zona U: è una “soundwalk”, un’immersione in uno spazio delimitato da un punto di vista sonoro. Bucaletto è un quartiere di Potenza, edificato in fretta dopo il terremoto. Massimo è stato invitato dal festival di Potenza “Le cento scale” e ha tenuto un laboratorio di ascolto-registrazione in un quartiere che doveva essere temporaneo dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980.

Le case prefabbricate, assemblate sul luogo, all’epoca futuristiche, specie di basi spaziali, esagonali, case-container adattabili, adagiabili su qualsiasi suolo anche disastrato, sono diventate permanenti e si sono trasformate in rovine.

Il quartiere si è arrangiato attorno a questa fondazione temporanea nelle intenzioni, ma di fatto diventata permanente e fragile. Massimo insieme ad Agnese Cornelio, regista con cui collaboriamo da circa due anni, hanno effettuato registrazioni, hanno elaborato un percorso su una mappa più estesa, fino a creare un ascolto raddoppiato che comprende sia quel che ascolti direttamente di persona e quel che ascolti nella registrazione avvenuta in un tempo differito.

Si tratta di lavori creati per essere riascoltati nel luogo stesso e ne è stata fatta anche una versione radiofonica, entrambi sono stati trasmessi da TreSoldi, su RadioTre.”

Personaggi o persone

S: Rispetto ai vostri lavori che esulano dalla fiction, il ruolo dei personaggi o piuttosto delle persone forse è molto ambiguo, nel senso che ci si muove lungo una sottile linea di confine fra i due stati. Hai già detto molto parlandomi dello spazio, quando hai evidenziato come il vostro lavoro parta dal personaggio e dal suo ambiente, ma forse puoi aggiungere qualche altra riflessione.

A: “Noi partiamo dalle persone, di loro dai una versione, perciò questa creatura che ne deriva, la puoi chiamare personaggio, dopo che hai visto tutto il suo sviluppo. Ci muoviamo però da una base documentaria, quindi cerchiamo di far rimanere la persona, di non metterla già dentro a un “vestito”. Abbiamo portato gli esempi dei ragazzi ai quali accennavo prima, ora posso aggiungere anche quello della figlia di Massimo, Ada, di undici anni.

Un giorno ci ha proposto anziché andare sempre in altre città, cambiare casa, di fare un film su Bologna. Allora ci abbiamo pensato. Così, Ada che ha visto e vissuto in tutti i nostri set, in questo caso è entrata nel film, si è costruita un personaggio. Si è messa a servizio del film, ha interiorizzato le aspettative del  documentario.

Ha capito che la successione degli accadimenti, delle azioni quotidiane, non poteva avvenire tutta insieme, ma ognuna si inanellava nell’altra. Tutti questi avvenimenti dovevano succedere “come se niente fosse”, doveva trovare il modo che si verificassero, senza dire “adesso facciamo questo”, altrimenti sarebbe caduto “il palco”. La teatralità di un’operazione come questa non può essere dichiarata, resta immersa dentro il documentario, una specie di ultrafiction. Ada l’ha capito molto bene.

Nel film dove compare, si vede lei che mette un disco, lo ascolta sul divano, poi si addormenta, quindi va sul terrazzo, in seguito si cambia il vestito e chatta con una sua amica, ma in tutto questo non dice nulla. Se hai voglia di seguire queste azioni, la loro sequenza si trasforma in un plot dove succedono molte cose, però devi concedere al tutto un po’ di spazio e un po’ di tempo.

In questo senso Ada aveva inteso molto bene che cos’è il walk the line fra l’azione a favore di camera o quelle che avvenivano nel rifugio della sua stanza. È stata un’esperienza bella che ha esorcizzato la paura di Massimo, come genitore, di assegnare la parte di un adulto a una bambina, spettacolizzare la sua vita, con il rischio di carburare il narcisismo dei bambini. Fortunatamente ad Ada non interessa fare film di fiction, non ha voglia che qualcuno le dica continuamente cosa fare!”

S: Puoi riprendere la definizione di DRAMMATURGIA URBANA che avevamo lasciato in sospeso all’inizio del nostro dialogo? Se ti sta stretta, puoi anche dire che non la condividi, o qualunque altra cosa che tu senta la necessità di esplicitare.

A: “Diciamo che non ho una chiosa su questo, o non ho una definizione, perché per me sono due parole comuni. La drammaturgia la puoi applicare a quello che vuoi, il termine “urbano” è riferito a una città, ma se sei in un altro posto è un’altra cosa. Mi posso applicare a questo tipo di lavori, ma non ho una definizione.”

S: A questo punto passerei a chiederti come vi rapportate con il concetto di Trama e Intreccio come li affrontate, che cosa vi suggeriscono.

“Il termine Intreccio l’abbiamo usato molto in un altro progetto che si chiama Lumi, realizzato l’anno scorso. È un momento di transazione tra il documentario che ci hanno detto chiamarsi staged documentary e la scrittura vera e propria, drammaturgia se vuoi, sceneggiatura.

Quella parola l’abbiamo usata prendendola dalla teorizzazione di un antropologo, Francesco Remotti, che ha scritto tre libri sullo stesso tema nell’arco di quindici anni. L’ossessione identitaria e Contro l’identità sono una demolizione del concetto di identità che noi usiamo per indicare molte situazioni in realtà “altre”.

Il terzo libro Somiglianze è la parte costruttiva in cui propone di sostituire l’identità univoca con un “intreccio di somiglianze e differenze”. Mi sono permessa di adottare la sua proposta e abbreviarla in “treccia”, perché così la vedo meglio.

Perché se dico trama o intreccio, da una parte penso a Deleuze, trama, dall’altra Donna Haraway  entaglement, e penso a riflessioni così note da essere diventate “di moda” e molto abusate. Sono diventati balocchi, termini pigliatutto. Fino al ‘95 se scrivevo “identità” nella presentazione di un progetto era cool, ora la parola magica è “intreccio”.

S: A proposito, dedicheremo presto un articolo alle parole chiave di moda nel linguaggio culturale contemporaneo, accanto a “intreccio”, possiamo aggiungere “interazione”, “cura”, “interspecie”; “resilienza”, tanto per citare quello più fruste, diventate tali anche in seguito alla pandemia.

A: “Lo scenario che Remotti propone è quello dove la singola persona, il gruppo sociale o il luogo specifico esprimano da dentro o da fuori, una treccia in movimento di relazioni, di somiglianze, o differenza con l’interlocutore. Non c’è mai una situazione di “immobilità”, anche se l’elemento in questione non è interpellato, si attiva sempre nella relazione; è un intreccio di somiglianze e differenze.

Per esempio, io ho 47 anni, Yakub ne ha 17, tutte e due abbiamo caldo e vogliamo il gelato, tutti e due quando prendiamo una botta ci viene un ematoma, ma a me viene verde e a te viene viola perché hai la pelle marrone, tutti e due abbiamo avuto la pertosse.

Questo intreccio in cui continuamente siamo vicini, lontani, diversi, simili, questa treccia che scopriamo man mano che presentiamo l’uno all’altro informazioni, o ci accordiamo per l’azione che facciamo è una visualizzazione, uno scenario su cui mi interessa costruire molte cose, situazioni, esperimenti, film, eccetera.

Un’azione totalmente diversa dallo sbozzare luoghi o personaggi, identificandoli, comprimendoli in una dimensione formale, o stilizzata, di forte appeal perché  si staglia contro uno sfondo e culturalmente abbiamo imparato ad attribuire a tutto ciò molto valore. Al contrario, è molto difficile dare una visione dell’intreccio, ti lascia un po’ insoddisfatto.

Per questo facciamo spesso delle serie, perché vuoi capire come va avanti. In questa proposta di demolizione di un concetto e sostituzione con un altro approccio, mi sono impegnata in un esercizio: per un anno e mezzo mi sono sforzata a non usare mai la parola “Identità”, né nel parlare, né nello scrivere. È stato difficile, però permette di togliere lo strumento-dispositivo della parola e di dire direttamente la cosa, mettere allo scoperto le tue intenzioni. Provare per credere.

Remotti ha riflettuto sui diversi tipi di conflitti identitari, di contrapposizione, di costruzione identitaria. Spiega che noi ci arrocchiamo quando nascondiamo realtà più complesse da rivelare. Per esempio si desidera esprimere un bisogno di affermazione, richieste che si teme non siano soddisfatte, quindi si sceglie di prendere in contropiede l’altro e avanzare una dichiarazione perentoria (per esempio “noi siamo fatti così” o “sono arrivato prima io”).

A questo proposito egli faceva l’esempio del conflitto israelo-palestinese, derivato da elementi molto concreti come la gestione/controllo dell’acqua e usufrutto del territorio. L’abitudine a pensare in termini di “e…e”, anziché “o… o”, credo l’abbiamo appresa dalla filosofia e dall’antropologia che tenta di decolonizzarsi, e per quanto mi riguarda soprattutto dal pensiero femminista contemporaneo.

Così si può considerare contemporaneamente il punto da cui guardi e l’oggetto dell’osservazione, senza negare il fatto che sei una certa persona, con caratteristiche proprie e limitazioni. Con Remotti abbiamo avuto un contatto diretto. Gli abbiamo chiesto di scrivere un testo per il libro Lumi che ha accompagnato il progetto omonimo.

E’ stato molto emozionante chiedergli di scrivere un saggio accanto alle nostre sceneggiature nate alle luce del suo concetto di intreccio continuo di somiglianze e differenze. Un complesso che lui chiama “So-Dif”. Così anziché parlare dell’identità dei bolognesi, lui ricorre all’espressione “so-dif di Bologna”. Se la usi ti cambia subito la visione, non vedi più i mattoncini rossi, il tortellino e il lauro sulla testa di studenti ubriachi…”

S: Ultima domanda. Come vi ponete con il rapporto con il pubblico?

A: “Diciamo che a noi piace essere il pubblico. Ora più che mai ci piace fare il pubblico.”