ZimmerFrei: Interstizi di tempo e spazio reversibili
ZimmerFrei, stanza libera, interstizi di spazio, pieghe nel tempo da ricomporre, esplorare attraverso performance, video e suoni. ZimmerFrei nasce a Bologna nel 2000 dall’incontro di Anna Rispoli, regista teatrale e performer, Anna De Manicor, videomaker ed il sound designer Massimo Carozzi. Lavorando indifferentemente tra i circuiti culturali underground e quelli istituzionali, hanno dato vita ad una serie di progetti che intersecano i linguaggi del suono con quelli del video, il teatro e il cinema. Lavori spesso site specific, che partono da un ascolto del luogo, si lasciano attraversare e respirano ambienti e situazioni da rielaborare attraverso ogni opera. Tracce di narrazione, residui di cinematicità nel reale, luci e movimenti nello spazio urbano, confluiscono e si trasformano in ciascun progetto di ZimmerFrei. Azione e riflessione che offre ogni volta uno sguardo nuovo, svela percorsi potenziali di lettura del reale.
Il loro ultimo progetto, l’installazione di suono e luci Everyday (the satellite seems a little further out of reach), nasce da una collaborazione con il gruppo di sperimentazione sonora 3/4HadBeenEliminated, per il ciclo di eventi Inaudito, ospitato dalla Galleria Nazionale d’arte Moderna e Contemporanea di Roma e curato da Daniela Cascella, Angela Rorro, Oscar Pizzo, Manuel Zurria. L’installazione verrà inaugurata il 12 giugno da un intervento live dei due gruppi, momento di nascita, atto vivificatore di un campo di luce e suono in bilico tra percezione naturale e struttura sintetica audiovisiva. Il 9 giugno ZimmerFrei sarà inoltre protagonista della MasterClass/Incontro con l’artista presso il MLAC, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea di Roma, per presentare il progetto Everyday (the satellite seems a little further out of reach) insieme a lavori recenti della loro produzione.
Claudia D’Alonzo: Come nascono il progetto Everyday (the satellite seems a little further out of reach) e la collaborazione con il gruppo 3/4HadBeenEliminated?
ZimmerFrei: Il progetto nasce su stimolo diretto di Daniela Cascella e Oscar Pizzo. ZimmerFrei collabora con Stefano Pilia da più di quattro anni; Stefano è uno dei nostri collaboratori più stabili, quasi un membro esterno. Tricoli e Rocchetti hanno partecipato ai live di Panorama_Venezia nel biennio 2006/2007.
In questo progetto abbiamo cercato di uscire dalle nostre reciproche specificità, non volevamo che i 3⁄4 si occupassero solo della parte sonora e noi di quella visiva; abbiamo preferito ibridarci e occuparci collettivamente di tutti gli aspetti del lavoro.
C.D.: Com’è strutturata l’installazione?
ZF: Il lavoro si struttura su due binari paralleli; quello luminoso e quello sonoro. La parte sonora è costituita da una composizione per pianoforte piuttosto complessa, generata dalle note della canzone Everyday the satellite seems a little further out of reach di Robyn Hitchcock, che dà anche il titolo al lavoro. Si stratifica su 32 livelli, ognuno riprodotto separatamente da uno speaker. C’è poi anche una parte vocale diffusa attraverso megafoni, che si va ad integrare con le parti di piano. La parte luminosa gioca invece sul confine tra luce naturale e luce artificiale, un sottile bilico percettivo dato dall’interazione di “banchi di luce ” a forte intensità e dalla luce solare che filtra dal lucernaio del cortile della GNAM.
C.D.: Avete definito Everyday (the satellite seems a little further out of reach) un’atmosfera controllata, un esterno declinato in interno. Mi parlate di questa vostra idea di oscillazione tra percezione naturale ed artificiale, tra interno ed esterno?
ZF: È il nostro stesso mondo che funziona così. Gli interni –le case- sono spesso utilizzate come luoghi pubblici (case-ufficio, case-studio, case-albergo, case-piazza, case-portfolio, case-showroom di rappresentanza…) e gli esterni delle città vengono spesso assimilate alla gestione di spazi privati, agli interni, in direzioni opposte per i nuovi ricchi e per i nuovi poveri: vie private e portici-camping, piazze-salotto e piazze-cortile, marciapiedi-garage e marciapiedi-toilette, strade-collezioni-di-qualcosa e strade-corridoio-per-uomini-e-merci, parcheggi-camere da letto per sfollati, migranti o cercatori di trasgressioni.
Anche la cura che si ha di questi spazi è cambiata: c’è chi arreda la casa come una vetrina e chi dorme in strada, chi invoca l’ammenda per le deiezioni animali e la galera per le umane; ma del resto i bagni pubblici, le fontane e le panchine che rendevano degna la vita sociale in strada non esistono più, si può accedere a un bagno o un bicchier d’acqua solo in quanto consumatori, non basta essere cittadini.
Il caso del cortile-interno della Gnam è un caso particolare di questa reversibilità degli spazi.
È uno spazio di risulta, lo spazio vuoto tra due pieni. Ha qualcosa di innaturale o meglio, di sovrannaturale. È come il 7° piano e mezzo di Being John Malkovich: un tunnel spazio-esistenziale.
È uno spazio senza destinazione d’uso, che invita a guardare in alto. E allora anche a vedersi dall’alto, vedere oltre le pareti, vedersi in relazione a un contesto più grande.
Credo che la visualizzazione di GoogleEarth sia già stata interiorizzata: stare sotto un tetto e contemporaneamente immaginarsi da fuori, vedersi dall’alto, arrivare sopra la propria testa a volo d’uccello e vista d’aquila (anzi no…, di satellite).
Quello che segue viene da nostri appunti pre-comunicato stampa.
Il cortile della Galleria Nazionale è un inter-spazio, una risultante esterna di due spazi interni. E questo determina la sua natura equivoca. È uno spazio residuo in cui si filtrano scorie di senso. È in qualche modo misterioso, vago, oscuro, infido. Come un vuoto d’aria tra due muri, una stanza seppellita, un tempio inutilizzato, segreto e non consacrabile.
Che fare di questo spazio? Come esorcizzare il suo demone?
Ci vorrebbe un atto di fondazione, un voto, un’offerta allo spirito del luogo. Abbiamo pensato a un drenaggio, a spalancare i muri e cambiare l’aria. Oppure dissodare il terreno, arare il pavimento e far riaffiorare la terra. E ottenere una bella fetta di spazio terra-cielo. Oppure invocare una stella cometa, un meteorite che squarci il cielo e l’aria e si porti via il tetto, il metallo il vetro e tutto affondi con la sua materia venuta dallo spazio in questo nostro spazio senza luogo, e faccia riaffiorare la terra in un bel cratere fumante.
Oppure dovremmo custodire il segreto per sempre, seppellirci un tesoro e murare tutto. Senza indizi, senza spiegazioni, senza mappe. E montare la guardia davanti alla sua porta, finché ci dimenticheremo perché siamo venuti.
Ma almeno un esperimento va fatto, un gesto di coltura ostinata di ogni più piccolo appezzamento che ci è dato in sorte. Proviamo a cavarne qualcosa, da questa nuda pietra, anzi finta pietra, da questo gesso, da questo tetto precario, dall’aria e dalla grande luce che filtra dentro e passa dal bianco titanio al paglierino, giallo cromo, ambra e zafferano prima di diventare oro vivo, ocra, arancio fiamma, oro vecchio, ruggine, nero.Il clima è mite, promette bene, anche se la stagione è già avanzata.
È deciso: trasformiamo il cortile della Galleria Nazionale in una grande serra.
C.D.: In molti dei vostri lavori la componente visiva è costituita da video, sequenze filmate, una presenza forte anche quando non è mostrata, come in The focus puller o Grande Estasi. In questo ultimo lavoro la luce sostituisce l’immagine. È la prima volta che lavorate con la luce? Che possibilità offre l’uso della luce in collegamento con il suono rispetto al video, all’immagine?
ZF: Si, abbiamo lavorato a lungo sull’idea di un cinema interno, come nei film solo sonori da ascoltare spazializzati nel buio (Grande Estasi, remake del visionario documentario di Herzog su un saltatore con gli sci) o da ascoltare in cuffia con gli occhi bendati (SpazioLargo/Cinema Interno), in modo che le immagini sorgano dall’interno, evocate dalle proprietà acusmatiche dei suoni (il termine viene da Michel Chion).
Nella costruzione di piccoli e speciali mondi che ogni opera impone, è molto importante quello che si vede ma anche quello che rimane fuori dall’inquadratura, quello che c’è quanto quello che non c’è. A volte quello che manca è proprio l’immagine.
Alla Galleria Nazionale quello che c’è è il volume d’aria contenuta tra quelle pareti altissime, il colore bianco-beige, la luce intensa e diffusa, il vettore verticale, la fetta lunga e sottile di cielo tra le maglie di ferro della tettoia. Non servono altre immagini, questa è la forma, l’immagine e la “natura” di questo posto.
Di solito lavoriamo sul differenziale buio-luce, dalla quale può sorgere l’immagine, qui invece si tratta di luce+luce.
Anche nei video naturalmente lavoriamo con la luce, ultimamente molto con la luce naturale e i suoi cambiamenti nel corso del giorno.
C.D.: Un vostro punto di riferimento sono le teorie sull’audio-visone del critico francese Michel Chion. In che modo i suoi studi hanno influenzato il vostro lavoro?
ZF: Per noi Michel Chion è stato un punto di partenza importante per riflettere sull’audiovisione. In particolare le sue teorie sull’acusmatica ci hanno spinto a sperimentare la rottura del binomio immagine/suono sottraendo una delle due dimensioni per enfatizzare l’altra.
Nella nostra società non impropriamente definita dell’immagine, la vista tende ad essere il senso predominante. Ma è anche il senso più arcaicamente aderente ai meccanismi di controllo della realtà e di prevenzione dai pericoli, è allora il senso più “razionale”. Al contrario, la percezione acustica del mondo non è in grado di rendere conto di ogni dettaglio, perché è capace di rendere solo ciò che è in movimento e che, attraverso il movimento, produce un suono. In un’ottica di produzione artistica questo è un elemento non trascurabile.
Acusmatico è un suono che viene percepito senza che se ne possa vedere la fonte. Questo aggettivo, antico e raro, è stato resuscitato negli anni Cinquanta dallo scrittore Jérome Peignot e dal compositore Pierre Schaeffer. Parliamo di suono concreto, non di musica.
Nel fenomeno acusmatico il suono si distacca dalla sua fonte, diviene “ciò-che–non-c’è”. Se manca l’immagine, la realtà rimane sospesa ad un livello incerto, non del tutto percepibile. Le informazioni mancanti non sono semplicemente perse, ma vengono “rimpiazzate” dal cervello, che produce immagini interiori di supporto ai suoni, allestisce insomma “un piccolo teatro interno”. Queste considerazioni sul funzionamento percettivo sono importanti per valutare l’enorme potenziale immaginifico che si può sprigionare dalla forzatura della coppia audio/video: si tratta di un livello fantasmatico di esperienza che ci attira.
Per esempio con uno dei nostri primi lavori, Spazio Largo – Cinema Interno, abbiamo girato un film fatto solo di suoni, senza immagini. Lo scopo è quello di attivare una fruizione creativa: escludendo la vista, il film si proietta direttamente nella mente dello spettatore. In Car wash drama invece, abbiamo realizzato dei micro screen individuali, in cui ad un’immagine tridimensionale fissa si sovrappone una sound track che si sviluppa nel tempo. Ecco che l’immagine si trasforma nello still immobile di un film immaginario, un film che si allunga nel futuro e nel passato.
C.D.: Negli ultimi anni state lavorando in circuiti istituzionali dell’arte contemporanea, in festival e in contesti più underground. Secondo la vostra esperienza quali sono gli aspetti positivi e non di questi differenti ambiti?
ZF: Lavorare in situazioni così diverse, fortunatamente, riflette la multiformità delle nostre produzioni: alcune sono installazioni per luoghi specifici o spazi pubblici, altri sono e veri e propri film, altre sono installazioni sonore o audiodrammi, altre ancora sono sperimentazioni non per forza comunicative…
Direi che nulla è pensato per la vendita ai collezionisti, sigh!
Gli aspetti positivi sono il proliferare di questi diversi contesti e la possibilità di osmosi tra questi, soprattutto quando un’istituzione o un festival si incrocia con situazioni informali, magari per una residenza di produzione, che rimane per noi il modo più interessante di lavorare.
A volte siamo noi stessi a creare il contesto e i finanziamenti per produrre, come nel caso di Space is the place (TPO, centro sociale di Bologna), Sound Facts (Museo della Musica, Bologna), Neverending Cinema (Galleria Civica di arte contemporanea di Trento) o ON. Luci accese nel buio (piazza Verdi, Bologna).
L’aspetto negativo è fondamentalmente l’Italia, dove la creatività è ad un livello altissimo ma non ci sono investimenti, solo speculazione (la svalutazione della cultura a puro lusso o banale superfluo, il mercato finanziario dell’arte, lo sfruttamento dei giovani artisti come forza-lavoro-ultra-precaria o ariete per erodere altre professionalità, come ad esempio grafici, fotografi, illustratori, designer, web-designer, scenografi, attori, registi…). Apparteniamo a questo posto ma non possiamo restare.
Claudia D’Alonzo