Vicino. Non Qui


dal catalogo della mostra Vicino. Non qui
Galleria Civica di Trento, 14 luglio – 14 ottobre 2018
a cura di Luca Coser, Margherita De Pilati e Gabriele Lorenzoni

Anna de Manincor
Varignana / Bologna – I – EU

Nata a Trento nel 1972, vive in vari luoghi in Europa, per lavoro e per scelta, tra cui Bologna, Marsiglia, Osteria Grande, Bruxelles ed Emborios in Grecia. Si laurea in Storia del Cinema al DAMS di Bologna, con Erasmus al Département de Cinéma di Paris VIII – Saint Denis. Insegna Tecniche di ripresa all’accademia NABA di Milano. Dal 2000 lavora nel collettivo ZimmerFrei, fondato con il sound designer Massimo Carozzi e l’artista Anna Rispoli. Realizza film documentari, videoinstallazioni, serie fotografiche, performance e progetti di arte pubblica. La serie di documentari Temporary Cities e le performance Family Affair sono state prodotte grazie a finanziamenti europei e residenze di produzione in Francia, Belgio, Portogallo, Ungheria, Polonia, Svizzera e Italia. L’ultimo film Almost Nothing | CERN Experimental City (2018) è una co-produzione tra Italia, Francia e Belgio. Nel 2003 ha esposto alla Biennale di Venezia, Padiglione La Zona a cura di Massimiliano Gioni. Con Zimmerfrei ha avuto personali al MAMBo di Bologna (2011) e al museo Beelden aan Zee de l’Aia (2015). Numerosi suoi film sono stati selezionati per partecipare a grandi festival, come TFF Torino Film Festival; Festival del Cinema di Roma; Biografilm e Visioni Italiane, Bologna; Trento Film Festival; Festival dei Popoli, Firenze; Visions du Réel, Nyon; DMZ DOCS, Goyang; Thessaloniky Documentary Film Festival.

Quando hai capito che il lavoro che stai portando avanti poteva essere la tua strada?

Quarta elementare, tema in classe. Titolo: “Io”. Tutti i bambini credono si tratti della solita ossessione degli adulti: “Cosa vuoi fare da grande?”. Io la sparo grossa e m’invento su due piedi di voler fare la regista, per creare un mondo come lo voglio io. Quarta superiore, occupazione del liceo (era il ’90, la Pantera): dichiaro di non voler fare l’università e di nuovo la sparo grossa: la laurea è un inutile status symbol che non serve a nulla se vuoi fare un lavoro che non esiste. Ultimo anno a Trento: mio padre cerca di indirizzarmi verso architettura o ingegneria, poi improvvisamente desiste, consegnandomi questa frase: “Dato che bisogna lavorare tutti i giorni e tutti i giorni della vita, che sia almeno la cosa che vuoi fare davvero”. A Parigi ci vado per davvero, a studiare danza, ma nel frattempo mi laureo in storia del cinema a Bologna. Poi mi sono ritrovata nelle arti visive, poi nel cinema sperimentale, poi nel documentario di creazione. Credo che cambierò lavoro almeno altre due o tre volte, ma so che la strada è sempre la mia.

Quali sono le tematiche essenziali della tua ricerca?

Cambiano con il tempo e con le occasioni, negli ultimi tre anni mi sono dedicata alle famiglie inventate, le città indomabili, i modi di abitare, i modi di convivere senza assomigliarsi, i modi di usare lo spazio pubblico in modo domestico, i modi di camminare, di ascoltare a occhi chiusi, mi piacciono le schiene e i campi larghi.

Pregi e difficoltà del tuo lavoro e del tuo ambiente creativo?

Non rinuncerei mai al lavoro in gruppo. ZimmerFrei è una casa comune, una personalità indipendente e una storia condivisa (e anche una famiglia abbastanza disfunzionale). Abbiamo lavorato insieme per 18 anni, ora possiamo anche vivere a 2000km di distanza. E’ l’intera nostra vita adulta, un patrimonio di cui ognuno di noi può disporre, anche muovendosi da solo.

Come ti rapporti e come vedi il tuo lavoro dentro le dinamiche
della contemporaneità?

A volte si chiede alle arti di prodursi in argute opere d’ingegno e di concetto su temi in cui la politica fallisce e accade spesso che gli artisti si prestino più o meno consapevolmente all’addomesticazione di luoghi, linguaggi e contenuti in nome della partecipazione o di una strana idea del popolare. Non credo che gli artisti debbano trasformarsi in sociologi, tuttologi o – peggio – influencer. Devo dire che confido di più nella letteratura (dal romanzo, al reportage,
alla poesia) e nel cinema (dal documentario, al cartoon) che nell’arte contemporanea. I film e i libri sono dei moltiplicatori di vite, le opere d’arte spesso rimangono intrappolate nel contesto
in cui sono state concepite e non riescono a parlarmi. Alla prima proiezione di Almost Nothing, il nostro documentario sul CERN, la cosa inaspettata è stata scoprire che il film sulla comunità dei ricercatori di fisica delle particelle continuava anche fuori dalla sala, nei discorsi degli spettatori, cosa che non avevo mai sentito all’uscita di una mostra. Due ventenni escono per ultimi e continuano a parlare del vuoto che non è vuoto e del fatto che non abbiamo ancora nemmeno inventato le parole per dire quello che al limite riusciamo a pensare. Dovevo avere gli occhi fissi o la bocca spalancata, perché mi si sono avvicinati dicendomi: “Signora, tutto bene?”.

Che relazione hai con il tuo territorio di origine, il Trentino, e come si sposa questa “origine” con la tua ricerca e con la città in cui vivi oggi?

Vivo malamente in pianura. Essere nata in una piccola provincia ai confini più estremi di un regno del sud mi dà un buon senso di realtà. Rimango molto legata ad alcuni luoghi dell’anima (un certo giorno, con una certa luce, una certa temperatura, l’acqua nera, il cielo nero, la roccia blu) e ad alcune persone con cui sono cresciuta e di cui ammiro l’integrità, l’originalità feroce e a volte sofferta. Detto questo Trento non mi è mai piaciuta, io e questa città non ci siamo mai veramente capite. Il Trentino di oggi è molto diverso da quello che ho lasciato, ma per me rimane un territorio dove il sole tramonta troppo presto.