Stefano Chiodi – La passione dell’apparenza – Campo | Largo – ed. Corrain/MAMbo 2011

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L’anno il 2000, il mese giugno, o fine maggio: eravamo in una pizzeria, Rivabella o Rivazzurra, Miramare, Marebello. Ci avevano presi tutti e tre per uno spettacolo teatrale di un’altra compagnia, eravamo in residenza di produzione, alloggiati in un motel per famiglie tra Rimini e Riccione. E nel frattempo stavamo progettando un nostro spettacolo. E come ci chiamiamo?
Spariamo una miriade di nomi, belli, brutti, assurdi, sigle, frasi intere, nomi inglesi, italiani, nepalesi… Finiamo la pizza, finiamo le birre, i caffè, gli ammazzacaffè. Sopra di noi luce al neon bianca e verde. L’insegna dice “ZIMMER FREI”. Zimmer frei. Zimmerfrei. È andata: ZimmerFrei.

La nostra memoria funziona così: branchi di cani ad Atene (erano tre) e a Palermo (forse cinque), greggi di pecore che rasano l’erba brucando in mezzo alle rotonde o i controviali di Harburg (una dozzina di pecore, il resto ce l’hanno raccontato), un’intera cintura di pastori moldavi e mezzadri abruzzesi che circonda l’estrema periferia di Roma, ben oltre il raccordo,Rom rumeni che abitano ogni anfratto, ogni buco nell’arenaria, ogni boschetto di pini marittimi lungo tutta l’Ostiense. Di notte a Francoforte tutte le luci degli uffici sono spente, i grattacieli sono dei monoliti blu e marrone scuro, è Gotham City. Atene dall’alto è una macchia bianca in campo ocra, Parigi è tutta color sabbia e azzurro polvere, Bruxelles è blu grigia e marrone e nessuno di quelli che prendono il tram si lava i denti. Trento negli anni Ottanta era nera, l’acqua dei canali di Venezia è verde, il cielo viola.

La voce accompagna fuori campo le immagini e i suoni di una strada: operai con trapani e martelli, passanti, macchine, una prostituta in attesa di clienti, l’interno di un bar, oggetti, gesti, facce. Parla di materia e antimateria, delle forme, del mondo, di tracce e narrazioni inscritte nelle cose, di una diversa modernità. Siamo nel centro di Bruxelles, in rue de Laeken, oggi: chi parla è un giovane architetto che lavora in uno studio poco lontano. La strada è una strada qualsiasi, né antica né moderna, un po’ decaduta semmai, con macellerie, caffè, antiquari, negozi di animali, di militaria, come si dice, un teatro, un fiorista, un tempio massonico; la abita una fauna composita, vecchi commercianti, pensionati, tipi eccentrici, spacciatori. È lo scenario che ZimmerFrei esplora in LKN Confidential, un film del 2010 concepito come un saggio di microstoria in cui la città è osservata a livello della strada, con l’occhio del passante, senza mai guadagnare quella posizione privilegiata, a volo d’uccello, che garantirebbe insieme distacco e capacità di generalizzare quel singolo case study. Tutto è invece a portata di mano, in primo piano, o almeno così sembra: la gente, le loro vite, i loro oggetti, il disordine più o meno organizzato che li circonda, anche il tempo passato in fondo. Non viene offerta nessuna conclusione, nessun giudizio. In mancanza di uno sguardo supposto onnisciente, l’attenzione e la curiosità paziente dell’antropologo, i suoi strumenti abituali – l’intervista, la catalogazione –, si applicano a ciò che è per definizione sfuggente, al racconto tendenzioso e incontrollabile, a quanto il film pone sin dall’inizio come inafferrabile, la “memoria collettiva”, o meglio la stratificazione di storie, immagini, simboli, allegorie che costituisce l’impalcatura di quel particolare angolo di reale. È un mondo senza eccedenze, quasi senza brecce, in cui si è fatta tenuissima anche la speranza di imbattersi in quel merveilleux, in quell’incontro casuale e rivelatore di cui andavano a caccia i surrealisti. Piuttosto, somiglia a un microcosmo fossilizzato, o a una sorta di nave fantasma venuta ad arenarsi su litorali familiari: dalla sua stiva escono oggetti incongrui, dalla funzione incerta, plichi su cui si è cancellato il nome del destinatario. Un negozio di acquari, un barbiere emigrato dall’Italia, una panetteria, case in ristrutturazione, cantine e negozi pieni di oggetti mediocri e curiosità da mercatino. Vista dalla prospettiva terrestre del passante, la storia ha lasciato in rue de Laeken tracce labili, un senso di sfocatura, molte domande senza risposta, un senso di vuoto. In LKN Confidential la città diventa una scena spettrale, una visione notturna di “case senza muri, senza soffitti, senza pavimenti, solo una trama di tubi, o di fili elettrici, con le persone che ci abitano dentro che fluttuano nell’aria”, scrive ZimmerFrei. Una fantasmagoria in cui ciò che vediamo rimane nascosto ai suoi frequentatori abituali, ai suoi stessi abitanti. È questo qualcosa “che non si sa di sapere”, l’inconscio della città e della storia, l’elemento attivo che forza il documentario, l’indagine antropologica a diventare un’altra cosa, un frammento di psicogeografia, la produzione, non la trascrizione di un’esperienza.
Il film possiede insomma una qualità sfuggente ma decisiva una densità simbolica scoperta dentro le cose, gli individui, i racconti, una strana disponibilità a lasciarsi sfuggire ciò che ignorano di se stessi, l’ombra di un altro senso che li abita. Quasi che modellarsi sull’assenza di direzione, sugli svincoli che non conducono da nessuna parte, sulle avventure senza finale che ci vengono raccontate, possa a sua volta essere la trama di un’altra storia, il lastricato di una città immaginaria. Del resto, anche il paesaggio acustico fa risaltare la natura schizoide dello scenario visibile sullo schermo: il sonoro in presa diretta – le voci e l’inevitabile rombo delle automobili, il rumore di fondo che ci assorda senza farsi percepire davvero – si mescola a suoni estranei, a note più basse, a modulazioni sintetiche, come per effetto di una sistematica sfasatura (temporale, acustica, psichica) che deforma l’apparente compattezza “naturale” della rappresentazione. Un effetto di accumulo che può giungere a governare l’intera struttura di un lavoro, come accade ad esempio in Ghost Track, una videoinstallazione a tre schermi presentata a Manifesta 7 nel 2008, la cui colonna sonora è interamente composta da frammenti di film (la lista degli autori comprende Hitchcock, Coppola, Scott, Chéreau, Ferrara, Fassbinder, Reitz, Von Trier). I prelievi restano riconoscibili (le musiche, il parlato, le voci degli attori, ecc.) mentre il piano dell’immagine e quello dell’ascolto sono messi in rapporto con un’accorta operazione di montaggio che equivale a una vera e propria rilettura/ricontestualizzazione attiva su entrambi i versanti. Così la voce roca dell’attrice Annabella Sciorra che recita un monologo in The Addiction (1995) di Abel Ferrara si trova sovrapposta al panorama di una periferia urbana contemporanea, un luogo indefinito, inquadrato in campo lungo, su cui si staglia improvvisamente l’ombra di un gigantesco stormo di uccelli. “La realtà – scrive ZimmerFrei – non è più il materiale primario del film, la sua base ‘ontologica’, ma è essa stessa composta di immaginario, materia, proiezione della memoria, fantasmi. Il cinema è diventato uno dei modi in cui percepiamo il mondo”. Non è difficile inscrivere le operazioni di prelievo, appropriazione e riuso, alla base di questo e altri lavori del gruppo, in una modalità allegorica che muove precisamente dalla disintegrazione dei linguaggi, dei generi, delle gerarchie linguistiche, dei paradigmi conoscitivi e si fonda sulla disarticolazione del rapporto diretto con il referente, con il mondo “vero”: ovvero i passaggio da un’economia simbolica di oggetti e valori a una disegni–merce, da uno spazio politico discontinuo e conflittuale a quella liscia superficie bidimensionale dominata dai processi di omologazione e consenso che costituisce uno dei tratti costitutivi della società spettacolare in cui viviamo. Così come queste stesse operazioni possono essere ricondotte a quelle metodologie di postproduzione, secondo la fortunata definizione di Nicolas Bourriaud, che nelle loro varie incarnazioni, incluse quelle più superficiali, costituiscono senza dubbio uno dei segni più caratteristici e controversi dell’arte della nostra epoca. La cultura del remix, come è stata chiamata, si basa tuttavia spesso su un’assunzione di fondo sin troppo ottimistica – l’appropriazione come gesto invariabilmente trasgressivo e creativo – che se in apparenza rinnova il gesto fondativo di Marcel Duchamp di fatto lo banalizza in una sequenza che mima in fondo, più che rivelare (anche inconsapevolmente, è l’aspetto interessante), la potenza del capitale come forza che opera una incessante conversione di ogni cosa, presente o passata, materiale o immateriale, in “valore”, per annullarlo un attimo dopo. Ogni strategia di appropriazione reca con sé in altre parole una sostanziale ambivalenza: se inventa protocolli alternativi per rappresentazioni e strutture narrative già esistenti, riaccendendo così nel caso migliore potenziali di senso spenti o marginalizzati, non può oggi evitare di fronteggiare anche la propria inevitabile obsolescenza, l’evaporazione in un regime di manipolazione permanente, l’irrilevanza. Diventa allora necessario coinvolgere un piano più arretrato, più sfuggente anche, che potrei tentare di definire di “resistenza”, di prova individuale, non garantita se non da un fragile patto con lo spettatore, un elemento attivo che “attraversa la fantasia” non per smascherarla ancora una volta come illusione, simulacro, effetto, ma piuttosto per mettere in luce la “mancanza simbolica”, come la definisce Richard Boothby, che abita il reale, l’elemento fantastico, inassimilabile nidificato al suo centro. Questa è in effetti una delle dimensioni più importanti del lavoro di ZimmerFrei: attraversare in via allegorica il reale per reintegrarvi la sua parte allegorica e fantasmatica, il suo doppio immaginario (ad esempio nella serie di performance Quando, 2004–10, in cui tre personaggi sono presenti simultaneamente tre volte: due in carne e ossa, per mezzo di sosia, e una in forma di immagine proiettata), una specie di vuoto invisibile, come accade ad esempio in un lavoro senza titolo del 2010 – uno spioncino installato a parete che permette di sbirciare in un ambiente contiguo –, dove una specie di mondo nascosto viene scoperto dallo spettatore oltre lo spazio di esposizione. Come nell’ultima creazione di Duchamp, Etant donnés, la straordinaria macchina di illusioni in cui si fondono peep show ed evento epifanico, l’apparizione della Mariée, ZimmerFrei invita qui lo spettatore a penetrare, a possedere con l’occhio appoggiato al peephole uno spazio ulteriore, suppostamente riparato: una collezione di oggetti, libri, dischi, e anche una rete di predilezioni, simboli, talismani, in cui si disegna in trasparenza un autoritratto collettivo del gruppo. Una messinscena, un angolo di realtà contraffatta che ha dunque anche il senso di una confidenza intima, di una piccola rivelazione.
In modo non dissimile, i visori stereoscopici della serie Stereorama propongono da qualche anno a questa parte una singolare esperienza “immersiva”, grazie alla suggestione delle immagini tridimensionali e della colonna sonora abbinata a ciascuna di esse (in questo come nel caso precedente, si tratta del riuso di tecnologie obsolete, che datano all’epoca delle meraviglie ottiche che precedettero il cinema a fine Ottocento). In questi oggetti il gesto indiscreto di sbirciare si combina con l’attesa di un’esperienza insolita o curiosa che si trasforma in una regressione mnemonica guidata: dove abbiamo già visto questi luoghi? Su un piano affine, ma stavolta totalmente cieco, concentrato sull’ascolto, si pone infine un terzo lavoro del 2010, Senza titolo (di un dio minore), un registratore a bobine su cui è conservata una conversazione frutto di un’intercettazione telefonica. Come uno spioncino, possiamo penetrare senza esser visti in uno spazio che non ci appartiene, la relazione tra due uomini, uno più anziano dell’altro, uno più potente dell’altro, tra i quali si intreccia una complessa trama di richieste, allusioni, minacce. Nessuna di queste strategie (l’esplorazione filmica della città, la perforazione delle pareti, la ricreazione ottica della profondità, la radiografia politica della vita privata) ha insomma lo scopo, come sarebbe stato ovvio in una prospettiva modernista, di portare allo scoperto la realtà dietro l’apparenza, col fine più o meno dichiarato di redimerla e di redimere en passant lo spettatore (in quanto soggetto politico) dalla sua condizione subalterna. Il gioco è più complesso, e più ambiguo anche, dato che per ZimmerFrei si tratta di posizionarsi sul confine tra la dimensione in cui l’immaginario produce la realtà “reale” sino al punto in cui quest’ultima è a sua volta percepita come effetto spettacolare, secondo quella dialettica su cui ha diffusamente argomentato Slavoj Zizek. Irreale, in una parola: al tempo stesso più attraente proprio perché irreale e più angosciante perché in essa risuona un altro Reale – traumatico stavolta e irrappresentabile. Con le loro inquadrature ellittiche, la mancata separazione al loro interno tra testimonianza e invenzione, il “documentario”, lo spioncino, il visore, il doppio o la foto stereoscopica, offrono insomma un colpo d’occhio su un universo parallelo, un mondo al di là dello specchio offerto a chi guarda attraverso una sottile manipolazione delle sue aspettative il cui esito finale non è garantito. All’estremo opposto, si potrebbe dire, della Bruxelles cava e introversa, della sua quotidianità rassicurante, della sua strana malinconia, ZimmerFrei ha individuato un doppio scenario aperto: una spiaggia a Coney Island – il sobborgo di New York in cui si è per la prima volta materializzata la città di sogno che avrebbe poi preso fattezze reali a Manhattan – e un pezzo degradato di campagna romana, col suo tipico e caotico miscuglio di palazzoni, rovine, campi riarsi e macchie verdeggianti. Una di fronte all’altra, queste due serie di fotografie diventano per lo spettatore un puzzle da riordinare a volontà, un gioco combinatorio in cui la pelle sottile delle immagini si ispessisce, acquista peso, perde l’innocenza. Due luoghi tra cui si tende il racconto di due identità di confine: sulla spiaggia, sotto il titolo inglese Tomorrow is the question, si muove una famiglia della comunità ebraica Chabad–Lubavitch, un giovane padre in camicia bianca e cappello d’altri tempi, i figli sparpagliati sul bagnasciuga o appesi al collo di una madre bambina che si aggira accanto a un ragazzino dal viso bistrato di clown triste, un gruppo che ricorda i mostri troppo umani di Diane Arbus. Sullo sfondo, le architetture fantastiche di un piccolo Luna Park in disarmo, dove spicca sopra l’autoscontro un razzo puntato verso il cielo e appena dietro una grande ruota panoramica. Le ombre sono lunghe, deve essere fine pomeriggio. Le fotografie de I giorni del cane (cioè: i giorni della canicola, i giorni della paralisi estiva) offrono invece uno squarcio del mondo marginale, violento, solitario, di un gruppo di pastori moldavi e dei loro animali, pecore, cani, gatti. Una vita dura, randagia, di poche parole, di gesti ripetuti sotto l’occhio del padrone, di sangue e terra sporca, giorni ottusi e sempre uguali sul cui fondo si muove una testarda e impressionante volontà di sopravvivere. Questi estremi si toccano in un punto: il margine esterno, lo spazio incerto in cui i vincoli e i significati sociali si allentano, in cui più brutali appaiono gli effetti dei progressivi sradicamenti su cui si fonda per gli invisibili della nostra epoca l’esistenza sociale. In entrambi i casi la città è ridotta a sfondo, a quinta indeterminata, e lo spazio ristretto su cui si muovono i personaggi diventa una sorta di teatro dell’alienazione, un luogo in cui è impossibile immaginare una vita, un luogo da cui si può solo cercare di fuggire. Questa idea di città inabitabile, straniata, labirintica fino al capogiro, disomogenea e frammentata al suo interno, innerva in particolare la serie di Panorami realizzata in video tra il 2004 e il 2009, dove la manipolazione dello spaziotempo – ottenuta grazie all’uso di panoramiche circolari, riprese time lapse e all’asincronia tra i movimenti dei performer e quelli dei passanti – genera una vertigine che progressivamente inghiotte spazio e gesti, architetture e corpi. Come peculiari dimostrazioni della teoria della relatività, i Panorami mettono in scena l’inverosimile unione di due temporalità, di due universi non comunicanti, regolati da tempi diversi: nel fluire accelerato delle immagini – una giornata si condensa in mezz’ora – i performer appaiono le uniche presenze in grado di opporsi con successo (anche se a costo di un più sottile e definitivo straniamento) al ritmo catastrofico che trascina ogni cosa intorno a loro, quasi fossero avvolti in una specie di sfera trasparente o venissero da un altro universo, automi proustiani che cercano di opporsi all’oblio. Sdoppiando il tempo, e mostrandocene la simultaneità, i video interrogano così la struttura della durata, il nesso fondamentale che in ultima analisi costituisce la garanzia dell’immagine cinematica: vale a dire che quanto vediamo accade (“è successo proprio lì”) nella realtà. Le immagini di ZimmerFrei, per seguire un ben noto ragionamento di Deleuze, non rappresentano cioè un’azione che ha luogo nello spazio bensì nel tempo, dove quest’ultimo non è più il tempo cronografico, ma è assimilato piuttosto a una sfera immateriale, soggettiva, come quella del pensiero e dell’immaginazione. Invece di una serie di intervalli sequenziali, di una progressione cronologica in cui lo spettatore è messo di fronte a immagini che riecheggiano la sua esperienza, i Panorami propongono dunque qualcosa di radicalmente differente, un processo mentale in cui ancora una volta prevale la sfasatura tra ciò che appare e ciò che potrebbe esserci, tra quel che il simulacro elettronico restituisce e ciò che è conquistabile soltanto tramite un atto di appropriazione che è politico, connesso cioè alla dimensione del riconoscimento reciproco e della trasformazione collettiva, solo in quanto artistico, inerente cioè al raggio d’azione estetico dell’opera d’arte. Anche se la spettacolarizzazione della vita sembra aver consumato ogni illusione nei suoi poteri terapeutici e archiviato la sua pretesa di poter disvelare il “vero”, l’arte continua tuttavia a sollecitarci, a scuoterci in modo inatteso, anche e forse soprattutto nella condizione spettrale in cui si è venuta a trovare la millenaria custode del cambiamento in un mondo dominato dalla potenza del morto (il capitale, la merce) sul vivo (l’individuo, il pensiero). Ma sappiamo anche, l’ha spiegato un altro filosofo, Derrida, che se è impossibile liberarci dai fantasmi – perché, alla fine, abbiamo imparato a riconoscere il fantasma in noi stessi – l’oggetto estetico, di qualunque genere sia, non può suscitare interesse se non quando si pone in una relazione anacronica, fuori fase col presente, come fattore di anticipazione, frantumazione e crisi dell’apparente omogeneità del reale, come evocazione della sua parte in ombra, della sua inabitabilità, in altre parole quando è capace di fornire attraverso il suo stesso “corpo”, il suo eccesso simbolico, una lettura del presente per ciò che in esso non è mera attualità. ZimmerFrei ci invita in definitiva a entrare in contatto con questo paradosso che abita la pratica artistica nell’epoca dei simulacri, una condizione che ci rende – come dice il verso di Rilke diventato il titolo di un lavoro del 2011 – “fino all’orlo colmi di figure” ma ciechi riguardo alle cause, paralizzati e senza risposte, catturati come siamo nell’eterno ritorno dell’identico–merce.
Rimettere al centro del lavoro d’arte l’immaginazione significa reintegrare il fantasma nel reale, riconoscere la sua ombra, interrogarla dentro le cose, dentro gli individui, come se questi ultimi, come personaggi di Beckett, fossero “in attesa di scoprire il motivo della loro venuta”. Proprio questo è lo spazio su cui lavorano oggi Anna de Manincor, Anna Rispoli e Massimo Carozzi: tra la finzione e “l’effetto del Reale”, vale a dire tra l’immaginario e ciò che lo eccede, quel nucleo irrappresentabile che possiamo accogliere solo a patto che esso sia “finzionalizzato”, ovvero trasformato in fantasia. Un luogo in cui mettere a punto un gioco complesso di attraversamenti, rimandi, dislocazioni, un gioco sempre rinnovato e in fondo identico a se stesso, perché inesorabilmente procede da una cognizione anticipata dell’impossibilità della vittoria. Perché, per dirla con Philip Dick, the name of the game is Death.