Silvia Pellegrino – Hometown – Sentieri Selvaggi – Novembre 2013


Il collettivo ZimmerFrei, già protagonista nel 2012 al Torino Film Festival attraverso una retrospettiva dedicata nella sezione Onde, arriva al Festival Internazionale del Film di Roma con un documentario di alto valore sociale: Hometown | Mutonia racconta la storia della comunità mutoide di Santarcangelo di Romagna, composta da traveller e cyber-punk che la fondarono 23 anni fa. I mutoidi vengono da tutto il mondo, dall’Inghilterra all’Australia alla Germania e vicino ad ogni casa-roulotte nel campo, ci sono le officine dove creano le loro opere d’arte, le loro sculture di rottami, realizzando un’esperienza abitativa diversa e sostenibile. La salvaguardia dell’habitat biologico della ex. cava del fiume Marecchia (dov’è situata la riserva) avviene attraverso il riciclo, l’autogestione e il rispetto del territorio da parte dei protagonisti. Ma tutto questo rischia di finire: un singolo individuo contro un intera comunità…

Chi sono gli artisti ZimmerFrei?

Siamo un gruppo di tre persone che lavora insieme da 13 anni. Massimo Carozzi, sound designer, Anna de Manincor, filmmaker, e Anna Rispoli, artista che si occupa di arte pubblica.

Com’è cominciato il vostro percorso artistico? Da dove partono e dove vogliono arrivare le vostre esplorazioni creative?

Veniamo da Massa, Trento e Padova ma ci siamo conosciuti a Bologna, dove abbiamo studiato al DAMS, con tre indirizzi diversi (arte, teatro, cinema). Ci siamo conosciuti frequentando l’ambiente del teatro e della musica di ricerca e dal 1995 al 2003 abbiamo fatto un’esperienza collettiva importante partecipando all’occupazione del Teatro Polivalente Occupato e alla gestione del TPO 2. Nella musica e nel teatro lavorare in gruppo è molto comune, nelle arti visive i sodalizi non durano molto tempo e di solito sono la somma di due nomi. Nel cinema il fatto di non far comparire il nome proprio del regista è un’eccezione rarissima. Noi però siamo molto legati alla nostra avventurosa storia comune e avere un nome collettivo ci permette di essere più liberi, di fare più progetti allo stesso tempo, di cambiare lavoro, di vivere in più città contemporaneamente, di fare addirittura dei figli!

Cosa avete provato la prima volta che siete entrati nella “riserva” Mutonia?

Per raccontare l’arrivo al campo in gennaio ci vorrebbe Cormac Mc Carthy. Ci siamo ritornati l’inverno scorso, dopo averlo frequentato negli anni ruggenti, la prima metà degli anni 90.

La prima volta che sono entrata a Mutonia ero ospite nel camion di un’amica, Allegra Corbo, pittrice e performer, che ha vissuto lì a lungo con il suo compagno e due figli. Il posto mi affascinava e mi metteva paura allo stesso tempo, i corpi e il ferro erano violentemente troppo vicini, non c’era separazione tra officine, cani, bambini, macchine customizzate, vita privata, notte, giorno, terra, asfalto e ruggine.

Il nostro primo contatto per il film invece è stato Tommaso Maltoni, che conosciamo da quando abbiamo fatto insieme uno spettacolo con la compagnia teatrale Motus. Tommy vive al campo e produce lì e sue sculture.

Quando è nato il progetto di Hometown? e com’è stato accolto dagli abitanti di Mutonia?

Il film fa parte di Temporary Cities, una serie di ritratti di città che abbiamo iniziato a Bruxelles tre anni fa, per poi andare a Copenhagen, Budapest e Marsiglia. Sono film prodotti da enti non cinematografici, come il Kunsten festival des arts e InSitu, un network di festival che si occupano di interventi artistici nello spazio pubblico. Due anni fa il Festival di teatro di Santarcangelo ci ha invitato a fare una breve residenza in Romagna per realizzare un film dedicato a quel territorio. Mutonia è un luogo speciale in cui si fa una vita normale, si può considerare un “quartiere” della campagna intorno a Santarcangelo ma anche un luogo importante della circuitazione dei traveller di tutta Europa.

Non siamo certo i primi a girare un video al campo, e gli abitanti sono abituati ad avere curiosi e giornalisti intorno. Dopo tre o quattro giorni a girovagare tra le officine e i container, dato che non accennavamo ad andarcene, hanno cominciato a guardarci con più curiosità che circospezione. Siamo una troupe molto piccola (il direttore della fotografia Roberto Beani, Massimo al suono, Anna alla regia e seconda camera, Lele Marcojanni all’assistenza) e alla seconda e terza sessione di ripresa ci sentivamo già “a casa”, con piccole abitudini instaurate con alcuni degli abitanti. Durante la lavorazione del film abbiamo discusso a lungo con loro del film che immaginavamo e abbiamo deciso insieme quali immagini tenere, quali togliere e a quali dovevamo rinunciare.

Cosa pensate del loro modo di vivere, della concezione del lavoro, dell’idea di casa e di condivisione dello spazio?

Chi di noi può dire di aver fatto la propria casa con le proprie mani? Chi sarebbe disposto a smontarla e ricostruirla in un altro posto, fosse anche a pochi metri di distanza?

La casa a Mutonia è un piccolo guscio, una seconda pelle che si trasforma con le esigenze. D’estate si espande all’esterno, d’inverno si ritira e molto spesso si sposta o si riversa in spazi contigui. Per alcuni il luogo per lavorare e per vivere è lo stesso, per altri c’è un luogo per ogni diversa funzione (roulotte-soggiorno, camper-officina, caravan-atelier, camion-camera da letto, container-sala da bagno, e poi case dei giochi, casotti degli attrezzi, casette dei cani, dai gatti, dei bambini, delle galline). Alcune abitazioni sono minimali, ordinatissime, spartane, altre sono caotiche, coloratissime, stracolme di oggetti di ogni tipo, case-ritratto, case-sopravvivenza, case-mondo. E’ un po’ come vivere in barca: devi conoscerla come te stesso, sei sensibile ad ogni suo rumore, devi sapere trovare, riparare, rimpiazzare ogni sua parte perché tutto riesca a navigare decentemente fino al prossimo porto sicuro. E se non c’è niente all’orizzonte si resta in mare aperto, con qualsiasi tempo, col cuore in ascolto ma sempre leggero e attraversato dal vento.

Com’è stato lavorare con gli abitanti e soprattutto con i bambini e i ragazzi? Come pensate che vivano le seconde generazioni l’essere mutoidi?

La confidenza e la fiducia non sono arrivate subito, per fare qualcosa insieme ci vuole tempo, bisogna aspettare il momento giusto e essere disposti a cambiare programma in ogni momento.

Non ci siamo tanto occupati dell’”essere mutoidi”, quanto del fatto di vivere o crescere al campo. Il Campo è il soggetto più importante. C’è un ragazzo, Freddy, che è arrivato al campo a 8 anni, poi è tornato con la madre in Inghilterra, dove ha frequentato le scuole medie e poi, diventato adulto, ha deciso di tornare a vivere al campo per conto suo. Un accampamento temporaneo è diventato un luogo di origine, un posto in cui tornare e sentirsi a casa, homeland. A Mutonia sono passate tre generazioni, qualcuno ha cambiato vita e lavoro, qualcun altro torna periodicamente, qualcuno ci arriva adesso, lo vive a modo proprio e man mano lo trasforma. I bambini e i ragazzi che vivono al campo fanno una vita molto simile a quella dei loro amici e compagni di scuola, ma anche se a volte possono desiderare di avere una casa “normale” (soprattutto quando fa freddo ed è tutto fango e pioggia..!) ma hanno la possibilità di sperimentare qualcosa di speciale: l’idea che il modo in cui viviamo lo possiamo inventare noi stessi, e lo possiamo cambiare, così come ci inventiamo un modo per convivere e un lavoro di cui non dobbiamo essere schiavi.