Sarah Scandiffio – Work art in progress – maggio 2006

Coser
Neverending Cinema - Marinella Senatore
Carozzi Pilia Belfi 02
Neverending Cinema -
Massimo Carozzi, Andrea Belfi, Stefano Pilia
Invernomuto Savorani 04
Neverending Cinema - invernomuto

Neverending Cinema

Da dove è nata l’idea di creare un set cinematografico dentro una galleria?
Anna de Manincor: volevamo fare una cosa mai fatta prima: trasferire tutto il processo di produzione dentro uno spazio espositivo. Trasformare la galleria in laboratorio di ricerca, teatro di posa, luogo di scambio, studio di post-produzione, casa temporanea. Prima arrivano gli artisti, alla fine ci saranno i film!
Massimo Carozzi: Le esperienze che troviamo più interessanti ultimamente sono proprio le residenze. Soprattutto se coinvolgono molti artisti e gruppi. In Italia sono occasioni rare.
… E a quest’idea la galleria ha risposto rilanciando: un laboratorio non solo per gli artisti, ma anche per la comunità, per il pubblico.
Anna Rispoli: In questo modo il luogo della città dedicato all’arte contemporanea diventa realmente uno spazio creativo e un luogo di incontro trasversale, in cui le troupe si possono allargare, nuovi progetti video posso essere proposti e il tutto viene vissuto in corso d’opera.

Ma per gli artisti è una necessità avere un luogo dove produrre?
A.R.: Naturalmente ognuno ha i propri, ma lavorare in un luogo pubblico ha tutto un altro significato. Non perché si debba per forza mettere l’accento sui processi, ma perché molto spesso le opere sono dei work in progress. I film e i video possono essere delle lunghe lavorazioni e, per noi che veniamo dalle arti performative, la cosa più preziosa è condividere con il pubblico le tappe, fare verifiche. Abbiamo bisogno di confrontarci dal vivo, anche quando non si tratta di teatro o musica.

Cosa comporta allargare il lavoro ad altri artisti?
M.C.: Siamo sempre stati inclusivi, abbiamo sempre chiamato in causa altre personalità a lavorare con noi, da figure tecniche, ad artistiche, a curatoriali. Ad esempio per la trilogia Panorama abbiamo lavorato con almeno 40 performer. Per Space is the place, l’evento che abbiamo curato con Marco Altavilla al centro sociale TPO di Bologna, abbiamo fatto i tecnici, gli allestitori e gli organizzatori per più di trenta artisti in tre anni…
A.d.M.: Ma non vogliamo fare i curatori, semplicemente abbiamo un sistema di lavoro collettivo che ama le situazioni allargate in quanto arricchenti. Non è altruismo, è perché le ambizioni sono grandi! La fatica è ripagata se oltre al tuo piccolo video si avvia anche una macchina produttiva, se c’è un luogo vissuto, amato, spremuto, se hai imparato qualcosa di nuovo, se hai conosciuto qualcuno, se hai imparato a litigarci per costruire qualcosa.
Se sono i creatori stessi a inventare anche le occasioni di visibilità, l’accesso ai luoghi istituzionali è molto più aperto e stimolante, perché avviene nel momento in cui c’è l’energia al lavoro, le cose stanno nascendo in quel momento, vanno viste ora…

Qual è la differenza che sentite con il sistema dell’arte?
A.d.M.: L’arte contemporanea è molto concentrata sugli oggetti. E quando non è l’opera, quello che vale è la tua figura di artista dentro una specie di show business. Il tuo nome, quanto vale, quanto cresce, quanto fa valere i tuoi oggetti, le tue azioni… Se questo è il tuo unico orizzonte di riferimento, ti massacra. Avere delle esperienze in altri campi (teatro, musica, cinema, ma anche informatica, fotografia, ricerca scientifica, lavoro dipendente…) non è solo una ricchezza, diventa anche una strategia. Si imparano altri modi di lavorare, si collabora in un ensemble o si inventano nuovi nomi per chiamare quello che fai.

La contaminazione, lo shifting o il lavoro in collaborazione non sono una novità. E’ diventata la normalità?
A.R.: Per artisti ad alto livello è normale aver bisogno di molte competenze e delegare a terzi la realizzazione di qualche aspetto, perché i progetti sono grandi o complessi. Ma si possono fare anche progetti piccolissimi che partono dalla collaborazione di più teste. Se poi la firma è un unico nome, investito della personalità d’artista, tutto rimane sommerso e alla fine non è cambiato nulla, si continua semplicemente una tradizione. Avere un nome collettivo o lavorare ogni volta in formazioni diverse è una scelta di campo, si prendono dei rischi, ma la posta in gioco è più alta.
Anche il mondo del cinema funziona con lo show business. I film con attori o registi famosi talvolta hanno più successo. Ma è una macchina molto grande, è sempre un processo collaborativo e stratificato. La differenza è che il cinema è un industria…
A.d.M.: Il cinema assomiglia molto di più alla società che al mondo delle idee o all’espressione diretta della creatività. E magari in Italia ci fosse ancora un’industria cinematografica! Forse è per questo che gli artisti si possono permettere di abbordare il cinema: se in Italia non lo fa più nessuno lo possiamo fare anche noi. Nel momento in cui il cinema diventa un luogo dell’arte si espande in maniera nuova: ricomprende le possibilità sperimentate alle sue origini, quasi dimenticate dopo l’affermazione della fiction, e si apre alla dimensione materiale, installativa. La cosa magnifica è che ogni film ha la possibilità di ridisegnare il mondo e un film in una galleria d’arte può rifondare tutto, anche il dispositivo: l’immaginario di riferimento, il rapporto tra le immagini, il buio e la luce, tra il suono, la musica e il silenzio, la durata, le tecniche, la posizione del corpo dello spettatore, il senso del tempo, l’espansione nello spazio e il grado di “illusione di realtà”.
M.C.: Il cinema non è finito quando è tramontata la centralità dell’industria cinematografica nella nostra società. Una volta nato il cinema non muore più, non finisce mai. È diventato un modo di guardare il mondo, una forma del racconto, una categoria dell’immaginazione. E nel frattempo la realtà ha finalmente smesso di essere sovrapposta alla “verità”.

Sarah Scandiffio