Piersandra Di Matteo – Vivre sa vie. Una conversazione con Anna de Manincor – Alfabeta2 – Ottobre 2017


“Non farò figli per questo Paese”. Quarantatré giovani, ragazzi e ragazze, pronunciano questa frase in primo piano. Stop Kidding era la video-installazione che hai presentato alla Biennale di Venezia del 2003. Possiamo dire che un filo teso lega quel gesto che mirava a “rimuovere la membrana protettiva tra corpo singolo e corpo sociale” e il progetto nomadico Family Affair? 

Beh, la famiglia non è un tema sexy (ride). Abbiamo cominciato a pensare concretamente a Family Affair durante la realizzazione di Hometown|Mutonia, un film sull’utopia cyberpunk vent’anni dopo l’arrivo della Mutoid Waste Company a Santarcangelo di Romagna. La cosa più interessante in quel contesto erano i ragazzini, i nativi di Mutonia. Il loro modo di evitarci era eloquente: questa è la nostra vita. Vivre sa vie, direbbe J-L. Godard. Guardiamo dunque la famiglia a partire dalla domanda quasi imbarazzante: “come diavolo viviamo?”, dato che sempre e solo lavoriamo. Una esperienza molto comune è quella di vivere in più gruppi contemporaneamente, in famiglie frammentate e ricomposte, o di rifare più volte certi cicli: un compagno, poi un altro, una vita, poi un’altra, un figlio, e poi un altro figlio di un’altra. La precarietà e l’intermittenza della dimensione familiare sono condizioni che chiedono nuovi saper fare. Sia gli adulti che i bambini circolano in una dimensione simile a quella del lavoro: non c’è un posto fisso, non ci sono sempre le stesse persone di riferimento, non si può contare sugli oggetti perché non puoi portati dietro una casa intera e nemmeno avere tutto doppio. La sociologa Chiara Saraceno fa notare che quest’ultima generazione vive una quotidianità senza unità di luogo e di affettività. Noi l’abbiamo imparato a fatica da adulti, per molti bambini è la normalità (o la fatica di ogni giorno).

Nelle diverse tappe del progetto affrontate differenti aspetti come l’essere figli, la maternità e il maternage, i padri single, la trasmissione generazionale, la fratellanza, le intermittenze. Come questi temi indirizzano la struttura compositiva del lavoro?

L’idea di avere diversi temi è venuta a Lille, durante la produzione del primo episodio. È successo casualmente al primo incontro, alla prima domanda: “qual è la composizione della tua famiglia?”. Stranamente tutti i partecipanti hanno iniziato a parlare della loro famiglia d’origine, nonostante fossero adulti e genitori. Quindi il tema si è autoimposto: “essere (comunque sempre) figli”. A Valenciennes ad esempio ci siamo occupati dei padri single, che in Francia sono chiamati père en solo. C’è una rivoluzione in corso tra i maschi e in pochi se ne sono accorti! La genitorialità è tutta da ridefinire e ora è soprattutto l’uomo a cambiare. È proprio una vittoria esistenziale, una conquista affettiva. Abbiamo pensato di adottare il tema del “materno” in Ungheria perché in quel paese la situazione è critica. La rappresentazione della madre ungherese raccoglie il peggio della frustrazione della cultura cattolica repressa durante il comunismo, e torna fuori esplodendo sui doveri di genere. “Madrepatria” in ungherese è un unico concetto inscindibile. Nello spettacolo di Budapest abbiamo notato degli episodi di autocensura: impossibile criticare le istituzioni, impensabile ammettere di avere dei rimorsi o delle frustrazioni. “Pentirsi di essere madre” è un vero e proprio tabù, in tutti i luoghi che conosco. Dall’altra parte, più generale, sulle donne aleggia l’anatema: “se non fai figli la tua esistenza non è completa (anzi, non sei una vera donna!)”. C’è un’evidente contraddizione tra vita animale e vita sociale.

D’altra parte, sottolinea Chiara Saraceno, la colpevolizzazione delle madri lavoratrici è tutt’altro che superata, come se tra l’essere madre e l’essere donna non possa darsi conciliazione…

La situazione polacca è significativa. Il socialismo ha reinventato la figura della donna in quanto lavoratrice, con l’intento di costruire una società nuova. Pensa alle rappresentazioni delle donne alla guida dei trattori, dei tram, alle operaie dell’industria tessile, e poi telegrafiste, idrauliche, meccaniche, scienziate, insegnanti, direttrici di reparto. Le donne sono state instradate alla formazione scientifica e tecnica ma poi lo stalinismo le ha ricacciate a casa per bilanciare il problema della disoccupazione: “tornate a casa a fare le mamme, sostenete i mariti minatori o ingegneri”. Una generazione si è vista proiettare in avanti e poi indietro. Adesso queste madri e nonne di 60 anni, che sono state lavoratrici, femministe, comuniste, rivoluzionarie, sono diventate conservatrici. È la “tripla morale” di una società abortita, perché le stesse persone che hanno voluto una cosa ora la temono, e così predicano il contrario di quello che hanno vissuto.

Nel tematizzare la “famiglia”, rigettate qualsiasi forma di geopatologia dello spazio domestico o inclinazione voyeuristica. Il frame documentale dentro il quale si collocano le narrazioni, le presenze, i ricordi, nascono dall’abbandono di una drammaturgia preventiva e chiusa, a vantaggio di una tattica di autofiction.

C’è un teatro partecipativo che trovo disturbante. Come spettatrice soffro tremendamente quando un non professionista viene messo in una situazione di sovraesposizione senza avere gli strumenti tecnici per gestirla. E se ne sta lì a fare la sua parte, solo davanti al pubblico, con la propria storia personale (che è l’unica cosa che ha e la più preziosa), messa al servizio dello spettacolo – quando va bene – o della facile commozione – quando butta al peggio. Ecco, questo tipo di teatro per me è uno spettro.

Certi progetti partecipativi giocano su tratti autopromozionali e concilianti, impaginati attraverso forme di controllo estetico che utilizzano gli stessi linguaggi che vorrebbero mettere in crisi…

Per Family Affair non facciamo un “casting”, il gruppo si forma con i primi venti che rispondono all’annuncio, i nostri partecipanti non sono un vero campione rappresentativo. Sì, certi formati partecipativi hanno un atteggiamento paternalista. Per me il voyeurismo e la commozione sono ugualmente nobili e detestabili. Volerli ottenere programmaticamente è molto fastidioso. Mi sono chiesta: Family Affair è accondiscendente? Alla fine tutti si scoprono riconciliati? Per fortuna i partecipanti non hanno bisogno di risolvere alcun problema con lo spettacolo. Aderiscono per curiosità, per fare un’esperienza. Non c’è nessuna intenzione terapeutica nella costruzione di questa situazione di autofiction. Lo spettatore ascolta per un’ora la vita mai raccontata di qualcuno che non conosce, senza poter fare nessuna distinzione tra un dettaglio e l’altro, tra cose importanti o comunissime.

Mi interessa soffermarmi sul dispositivo scenico del travaso. Mi riferisco alla corrente informativa ed emotiva che passa da una persona all’altra: ciascuno si fa portatore dell’altro, riportando le sue parole ascoltate in cuffia. Come nasce questo meccanismo che sosta nell’entre-deux tra dimensione oggettiva e affettiva?

La performance è un congegno in cui i partecipanti sono protetti, stiamo insieme dalla parte dei bottoni (per questo la regia sta accanto a loro, sul palco e non dietro a tutto). È importante togliere tensione: non devono ricordare niente a memoria né fronteggiare il pubblico. Ognuno dei protagonisti è ritratto in video a occhi chiusi, in ascolto, nella propria casa. Un membro della loro famiglia è in piedi davanti allo schermo e, dando le spalle al pubblico, ripete semplicemente quello che gli arriva in cuffia, prestando la voce a una catena di “interposte persone”. È un doppiaggio simultaneo dal vivo. Da anni ho in mente il video dell’artista Gillian Wearing, 2 into 1 (1997), in cui la voce di una madre si sostituisce a quella dei due figli gemelli, con un perfetto (e diabolico) lip-synch. Un procedimento simile è usato dalla terapia di gruppo Gestalt, in cui si assume una prospettiva esterna alla propria emotività. Beh, mia madre è sociologa e psicologa, nonché mediatrice familiare ma è la persona che, secondo me, mi capisce di meno (ride)…

 …l’autobiografia è il vero spettro? (ridendo)

Autobiografia dal vivo? Orrore! In Family Affair nessuno parla in prima persona, c’è un gioco di domino con cui il racconto migra da una persona all’altra. Succede che un ragazzino parli al femminile ripetendo le parole della sorella più grande, padre e figlio dialogano con le battute invertite, un anziano rincorre a perdifiato le parole della nipote dodicenne, una donna pronuncia le parole del compagno, il quale a sua volta è doppiato dal figlio di lei. Quello che si racconta è una serie di piccoli fatti accaduti ma nella distanza tra un volto e la voce di un altro emergono gli stili del racconto, il narrare familiare che è quello che diventa microstoria di un’epoca e di un paese.

Il montaggio dei discorsi nasconde un lungo lavoro preparatorio, direi drammaturgico, generato da serie di interviste. Le narrazioni finali vivono di sottintesi, qualcosa che si imprime in latenza nella voce sotto forma di calore timbrico, interiezioni, accensioni di ilarità, esitazioni…

Alla domanda “da chi è composta la tua famiglia”, qualcuno risponde solo con una serie di nomi: Emma e Eva, lo zio Tino, la Cristina… Chi ha questo stile di narrazione, che io apprezzo moltissimo, di solito sta all’inizio, perciò si inizia con una sorta di scroll di nomi. I membri della famiglia – tre generazioni – sono molto diversi tra loro. Lei parla a macchinetta e lui, suo zio, è proprio di un’altra generazione, tutti pensieri prima pensati e poi detti, il meraviglioso modo di parlare l’italiano forbito degli anni ‘60. Ma far dire a lui le parole a cascata di lei era mortale, molto farraginoso. All’inizio raccontavano di una famiglia frammentata e burrascosa: la madre è separata dal compagno e ne parla ironicamente, le due figlie ventenni vivono dai nonni, lo zio scanzonato ha fatto il commerciante ma soprattutto il tennista. Poi le cose si sono rivelate tutte diverse: le ragazze vivono dalla nonna perché lì si trovano benissimo, e perché la generazione precedente ha vissuto così. I figli di Tino, il Mamo e la Betta hanno vissuto anche loro con la zia, cioè con questa grande nonna Carla che ha cresciuto la sua unica figlia, Cristina (“mia mamma è nata madre, è proprio la sua professione, lo fa per vocazione”), e poi ha cresciuto i figli di Tino nella stessa casa. Come nelle famiglie matriarcali di una volta, chi sa fare meglio la mamma si prende i bambini di tutti e gli altri fanno il resto.

Dopo aver seguito più di una tappa, posso dire che questi ritratti di famiglia, sono anche ritratti di città. Il legame con le vostre Temporary Cities mi sembra evidente. Si setacciano e raccontano i modi di vivere un luogo, si restituisce una mente locale…

A Torres Novas è stata una grande scoperta quella delle ex-colonie che fanno parte del vissuto psichico quotidiano. Il 1975 è vicinissimo: i Portoghesi che tornano dal Brasile e dall’Angola, improvvisamente spossessati di tutto e sbugiardati politicamente. Un terzo della popolazione è legata alle storie dei retornados. Valenciennes invece è un territorio ex-minerario, ex-industriale dove ci sono già tre generazioni di lavoratori disoccupati. Questo ha influito molto sull’autostima degli uomini, le coppie durano poco, le famiglie spesso possono contare solo sul sussidio e la casa assegnata alle madri single. Ma ci sono anche padri che si occupano da soli dei figli e che proprio per questo riacquistano un ruolo sociale positivo di cui essere orgogliosi.

La vostra esperienza insieme, come ZimmerFrei, è in fondo la costruzione di una casa comune, di una famiglia…

Sì, siamo una specie di cespuglio familiare. Se non lavorassimo più insieme il legame esisterebbe comunque, perché è una parte molto consistente della nostra storia. E avere una storia condivisa è il patrimonio più prezioso e delicato che ci siamo costruiti. È estremamente difficile lavorare nel tempo con le stesse persone: noi siamo cambiati, le condizioni del lavoro sono cambiate (ben due crisi economiche!) e il progetto iniziale è cambiato più volte. All’inizio, quando eravamo al TPO (Teatro Polivalente Occupato, un centro sociale autogestito dal 1999 al 2003 a Bologna) non era nelle previsioni costruire questa casa comune che sta un po’ a Bologna, un po’ a Bruxelles o migra di città in città, che si riforma continuamente dopo ogni crisi, che ha un nome che nessuno capisce ed è tenuta insieme da tre tipi abbastanza sconclusionati. In inglese c’è una parola: kinship.