Michela Arfiero – Catalogo Mostra Ouverture, Ex-Eggs Gallery New York – febbraio 2005

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Abel Ferrara - The Addiction

ZimmerFrei e’ un gruppo di tre artisti, un ensemble di personalità autonome e differenti. Come e quando decidete di realizzare insieme un’idea? Com’e’ nata la vostra collaborazione?
La prima occasione è stata un azzardo preso da tutti con entusiastica incoscienza. Era il 1999: da allora non ci siamo più fermati. È difficile stabilire da dove nasca l’impulso creativo…sicuramente i diversi stimoli vengono condivisi e discussi, facciamo volentieribrainstorming dove le tensioni si mescolano fino a quando i contorni delle idee divengono più definiti. A quel punto cominciamo a cercare le condizioni per rendere i progetti operativi. Spesso queste tempeste creative e organizzative si manifestano durante lunghi viaggi in macchina, in treno o in aereo. ZimmerFrei lavora sia come nome collettivo che come label che promuove i lavori di Massimo Carozzi, Anna de Manincor e Anna Rispoli. Le nostre formazioni sono diverse, veniamo rispettivamente dal cinema, dalla musica e dalla performance. Questi background sono un punto di partenza per cercare l’incontro. L’essenza del gruppo risiede in una complessa geometria di pensieri generata dalle rispettive intuizioni che inevitabilmente si incontrano e si scontrano per poi trovare un nuovo equilibrio dopo aver risolto eventuali variabili e dissonanze. Se per l’artista singolo il rapporto con il Fuori è mediato da un Altro interno, ovvero dall’inconscio, un gruppo di artisti porta l’Altro all’esterno, lo moltiplica in individui dialettici. Si tratta di un Alterità enorme, fatta di una pluralità di corpi, con il loro dialogo interiore e le loro relazioni reciproche. L’Altro, Il Fuori, si trova in realtà già dentro il gruppo che può dunque parlare una lingua plurale. Di sicuro la democrazia ideale non esiste da nessuna parte, tanto meno in un ensemble di individui egocentrici e dispotici, ma l’esperienza condivisa produce velocemente storia, i progetti collettivi superano la corrispondenza banale tra Autore e Opera, perché nessuna delle parti può comprendere interamente il lavoro e dunque esaurirlo.

Come definireste il vostro lavoro?
La politica ha il privilegio di trattare idee generali, l’arte ha il monopolio dei dettagli. Noi amiamo comporre dettagli, costruire sistemi, strutture, mondi parziali con funzionamenti propri, regolati da leggi fisiche specifiche. Il percorso del lavoro in gruppo è più complesso, laborioso e lento di quello di un artista singolo, ma credo sia più forte (nel senso di solido, radicante, longevo). Attraverso il lavoro di gruppo è più chiaro che il rapporto sano da costruire con l’opera non fa capo all’Arte stessa, all’estetica, alla critica, o al mercato, ma si riferisce ai fruitori. Ci chiediamo come costruire un’alleanza con lo spettatore che lo predisponga alla contemplazione e non al consumo dell’opera, all’immersione per un tempo continuo e condiviso. Se non c’è nessuno che ne gode, allora è il momento di cambiare lavoro.
ZimmerFrei assume come orizzonte di riferimento il cinema anche per la capacità che il mezzo possiede di contaminare la visione di molti in un intervallo di tempo assoluto. In fondo ogni nostro lavoro discute la nozione di tempo (quello che è il tempo presente, e quello che potrebbe essere) e il rapporto ambivalente con la violenza, intesa come energia, fame, bilico.
“We are not evil because of the evil we do, but we do evil because we are evil” Abel Ferrara – The Addiction

Spesso i vostri lavori si realizzano attraverso il video, il suono, la performance e l’installazione…E’ corretto pensare che non e’ l’oggetto che esponete l’elemento centrale delle vostre problematiche?
Al contrario. I nostri oggetti di ispirazione permangono così a lungo che non riusciamo ad esaurirli con un unico progetto! Spesso dallo stesso materiale realizziamo più opere. Forse proprio per questo da un anno abbiamo deciso di concentrarci su un progetto a tappe che articoli la riflessione in capitoli. Sto parlando di VISIONI DEL TEMPO, il ciclo di lavori ispirato alla percezione temporale di cui ad Ex-Eggs mostriamo l’ultima tappa. In questo ciclo il tema viene trattato in dodici opere di diverso formato: video, happening pirotecnici, performance, fotografie stereoscopiche. Ogni progetto necessita di un linguaggio proprio e di un suo specifico dispositivo di fruizione a seconda della domanda a cui risponde: Quanto dura il presente? il futuro è interamente prefigurato dal passato? Quando lascio un luogo, la mia vita prosegue senza di me? Dove sono le mie vite presenti e parallele?

Oppure, e’ altrettanto importante anche l’analisi critica dei mezzi e dei generi utilizzati?
Certamente l’opera si esprime in un “modo specifico” e vi si identifica. A volte la domanda che stimola il lavoro è molto complessa e richiede una risposta multipla. Come in Never Keep Souvenirs Of A Murder, un plot noir che è stato declinato in tre versioni: in forma di mediometraggio si chiede se esiste una terza possibilità oltre al libero arbitrio e al destino (o se l’identità singolare corrisponda ad un destino); in forma di performance cerca di rendere possibile la visione sincronica di due vite parallele mentre come video- installazione per due schermi contrapposti costringe lo spettatore ad una scelta, la stessa delle protagoniste. È evidente che i formati orientano verso un punto di vista. O di ascolto. Spesso, pur lavorando con l’immagine, abbiamo escluso il senso della vista dalla fruizione per privilegiare la dimensione auditiva: al buio il visitatore può accogliere il flusso
sonoro e usarlo per appoggiarvi le visioni del proprio cinema interiore. Il suono ha per noi un ruolo importante. Spesso abbiamo avuto bisogno di trattare le nostre fonti (letterarie, musicali, filosofiche) attraverso la loro sonorizzazione, elaborando delle particolari digestioni acustico-performative cantate, lette, suonate.

In un intervista, parlando del vostro lavoro, avete detto: “Il nostro reading Vocoder si modella, per esempio, sul tipo di spazio che lo contiene: vari supporti e possibili trasferibilità”. Che cosa significa?
I nostri interventi hanno sempre un carattere spugnoso, nel senso che il rapporto con il luogo in cui ci troviamo a lavorare è elastico: ci facciamo influenzare dall’architettura innanzitutto, ma anche dalle relazioni umane che attraversano lo spazio, dall’umidità. Dall’incontro di elementi specifici si genera l’idea di dispositivo che può rivoluzionarsi successivamente e in un altro spazio. Certamente dipende anche dall’occasione, si tratti di mostre, festival, concorsi, eventi organizzati da noi, spazi ibridi, o di dare libero sfogo al nostro furore creativo… Il nostro agire si appoggia sul mondo, storico, geometrico, organico.

Per ZimmerFrei esiste una relazione tra l’arte e quello che accade nel mondo?
Certo che sì, innanzitutto l’arte è contenuta in quello che accade nel mondo. Possiamo pensare all’arte come ad un sottoinsieme della realtà, qualcosa che sta accanto alla crisi economica, alla finanziaria 2005, all’impoverimento dell’Italia, al decadimento del sistema etico, ma non come a qualcosa che sta sopra e legge e giudica tutto questo. Eppure sembra che il bisogno umano d’arte sia inestinguibile, forse consustanziale all’essere umano. In questi anni la cronaca (e quindi la Storia) sta superando l’arte come potenza mitopoietica. Gli atti di violenza sono altamente spettacolarizzati, questo è evidente, così come è evidente che generino il bisogno catartico di esorcismo estetico. Le azioni terroristiche hanno raggiunto un’iconicità inarrivabile, non sono più solo espressione di un’ideologia (=parlano di altri mondi possibili), non coagulano senso o discorso, ma fermano immagini, recitano una Nuova Scena Madre. Almeno in Italia il cinema, le arti visive, ma soprattutto il teatro contemporaneo (territorio corporeo più di altri…), stanno cercando di rielaborare la tragedia capillare della cronaca. Ma, crudele a dirlo, ogni riproduzione è banalizzante, e il monopolio televisivo ha già messo in cornice la Scena Primaria incarnando appieno la solitudine e l’inadeguatezza di tutte le nostre culture a trattare con il dolore e con la morte. Qualche tempo fa un anticonformista Walter Marchetti recitava: “Se ci si vuole opporre all’ordine vigente è bene quando si presenta l’occasione provocare il caos”. Ora il caos è l’ordine vigente.
Ecco, anche in questo caso ci piace pensare ad un finale multiplo, magari compresente.

Michela Arfiero