Martina Angelotti – ON. Zimmerfrei – catalogo dicembre 2010

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Casa Grande, Piazza Verdi - Boogna
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Casa Grande, Piazza Verdi - Boogna
Blue_Mosque_Istanbul-Turkey
Blue Mosque, Instanbul

Casa Grande

La Moschea Blu di Istanbul è il luogo che ha ispirato la nascita di Casa Grande, installazione luminosa realizzata da ZimmerFrei, che ha inaugurato l’edizione di ON 2009.
L’opera è composta di un sistema di quattro centine in ferro concentriche unite da un impianto di sessanta lampadine a basso consumo. Una scenografia luminosa, costruita come un grande lampadario sospeso a mezz’aria fra il Teatro e l’Università, che per due mesi ha fatto luce nella piazza, trasformandola in un salone a cielo aperto.
Casa Grande è un luogo reale dove poter sostare, ma anche una dimensione incorporea, una costruzione solo immaginata (una parentesi dell’immaginario). Per due mesi ha visto passare migliaia di persone ed è stata sospesa sopra le traiettorie di passanti e biciclette, macchine e autobus, ha illuminato serate tra amici, foto ricordo, baci, pianti, incontri, attese, lauree, capannelli notturni, sonni all’aperto, corse, inseguimenti, pisciate negli angoli, albe e tramonti. E poi tanta neve, vento e pioggia. Ma il lampadario gigante è sempre stato là, appeso sulle nostre teste, a vegliare sopra tutti come una grande chioccia, e senza mai venir meno al suo principale scopo di spezzare il buio. Di una piazza. O di un’anima. Ricreando quella dimensione pubblica, quasi domestica, di un luogo accogliente aperto a tutti, una piazza da vivere in comune.

And is this what you wanted
to live in a house that is haunted
by the ghost of you and me?

Leonard Cohen

Che cosa significa per voi la parola CASA?
When I get home I won’t answer the phone
but right now, right now, right now I’m here all alone

Nick Cave

E’ un luogo che ci riconosce e che noi riconosciamo. La casa è il luogo in cui torni, quello che ti accoglie e ti permette di essere fragile, stanco, sfaccendato. Se hai una casa puoi essere ospitale.

Quali sono gli elementi che trasformano la Casa in una Piazza?
[…] la piazza era sotto l’influsso di un felice incantesimo. Davvero in quel momento mi sembrò di essere altrove, di aver raggiunto la meta del mio viaggio. Da lì non volevo più andarmene, ci ero già stato centinaia di anni prima, ma lo avevo dimenticato, ed ecco che ora tutto ritornava in me. Trovavo nella piazza l’ostentazione della densità, del calore della vita che sento in me stesso. Mentre mi trovavo lì, io ero quella piazza. Credo di essere sempre stato quella piazza.

Elias Canetti, Visita nella Mellah, in Le voci di Marrakech, Adelphi, Milano 1983, P57

Molti luoghi possono essere battezzati come “casa”, luoghi minimi, sempre più piccoli e incorporei (una stanza, un letto, una macchina, una valigia, il paio di scarpe con cui andremmo ovunque, un gradino di una scalinata in cui ci sediamo ogni volta che torniamo, una tenda, un’amaca, un albero, il desktop del computer) oppure grandi oltre misura (una città, un mare, l’Europa, ogni luogo in cui l’alba è azzurra, rosa e oro…).

E la piazza, può diventare una casa?
Certo, quando si sente quel particolare spazio pubblico come un luogo privato, inteso come “attinente alla mia persona”, vicino, prezioso, intimo. Vuol dire che quello spazio ci riguarda, come allo stesso tempo riguarda altri. La piazza è un bene comune e duraturo, ma per “adottare” una piazza non occorre recintarla, occuparla o privatizzarla come fa di solito il privato commercio, con banner, gazebo, stand e banchetti, e neppure con santi parcheggi per le nostre amate povere macchine, con le innocue ma insidiose postazioni fisse delle vecchiette fuori dall’uscio, con i bisogni corporali di uomini e cani o con zone separate dedicate a non so che. L’idea di “casa” che ci interessa è quella che comporta la cura, il prendersi cura di un luogo mantenendolo accogliente, abitato e ospitale, rendendolo in poche parole “domestico” nella selvaggia landa dove vince il più forte che è la città.
Piazza Verdi è sentita come appartenenza esclusiva ed escludente da molti e diversi gruppi di persone: “questa piazza è nostra” lo dicono sia gli studenti che i baristi, i pensionati e i senza fissa dimora che abitano i portici (e i cani degli uni e degli altri sono fatalmente attratti dagli stessi intensi odori di tutto l’isolato), i melomani e i politici che vanno al teatro Comunale, gli spacciatori e cleptomani di biciclette, i poliziotti e i carabinieri, i presìdi di tutti gli orientamenti politici e i gazebo di tutte le attività economiche. E’ una piazza che contiene tutti i nostri presenti. Dato che tutto questo siamo noi e questa è la società che insieme abbiamo creato, invece che privatizzare lo spazio pubblico, blindarlo o denigrarlo potemmo semplicemente starci dentro e prendercene cura. Come se fosse casa nostra.

In che modo secondo voi il riallestimento artistico di una piazza può modificarne la percezione?
Un intervento artistico che usa un elemento impalpabile come la luce e il colore della luce può riorientare lo sguardo, far sollevare la testa dal selciato e dalle sue insidie, può influire sulle sensazioni, sui giudizi e sulle idee (anche solo: ma guarda! mi piace, non piace, io avrei fatto così, cosà, quello che mi piacerebbe sarebbe…). In piazza Verdi non occorre fare grande pubblicità perché tutti reagiscono immediatamente, è un luogo vivo, sensibile e irritabile come un nervo scoperto.

Nella Moschea Blu di Istanbul si entra scalzi per la preghiera, ci si siede in ginocchio sul grande tappeto che copre il pavimento e si prega. O si medita, cercando un contatto col divino. In piazza Verdi non succede esattamente la stessa cosa: gli studenti vanno a lezione, le coppie si baciano sotto il lampadario e i punk bivaccano spargendo mozziconi e lattine di birra. Qual è secondo voi il trait d’union che riunisce sotto un’unica luce la realtà frammentata di questa piazza?
L’elemento comune è proprio quello di essere un luogo pubblico. Non semplicemente un crocevia o uno spazio aperto, ma tante cose insieme contemporaneamente: un cortile, un orto, un mercato, un salotto, una palestra, un’arena, un vero luogo d’incontro e di contrapposizione dove la città continua a sovrascrivere la propria storia.
Per questo luogo, che noi stessi viviamo giornalmente, abbiamo pensato ad un’installazione che non si debba imporre come un’opera a se stante, come una scultura, ma piuttosto ad un oggetto molto schematico che produce un’area di luce circolare e gialla, una scenografia che attira lo sguardo e asseconda serenamente la sosta. Gli enormi lampadari della Moschea Blu hanno funzionato solo come un ricordo lontanissimo (visti solo una volta, una sera di agosto nel 1990), nella progettazione non abbiamo cercato di riprodurli. L’effetto percettivo che è rimasto impresso, intensificato dalla memoria (e non dalla fotografia), era quello di un secondo cielo che abbassa alla scala umana l’altissima e buia cupola, ritagliando una fetta di notte accogliente e protettiva sotto l’infinito della volta celeste.

Quali sono gli elementi che caratterizzano l’identità di un luogo?
Facciamo una proposta: abbandonare il termine identità. Dire che una qualche cosa è proprio quella cosa non ha nessuna utilità se non quella di chiudere il discorso. E’ come dire “è così punto e basta”. Si ricorre all’identità quando ci si sente minacciati, quando ci cerca di accampare un diritto inconfutabile all’accaparramento di qualcosa che riteniamo ci sia dovuto (di solito una risorsa preziosa, qualcosa che descriviamo e definiamo e vorremmo così far diventare nostra), si cerca di un’identità quando si vorrebbe un riconoscimento da parte degli altri, questi altri e diversi da noi che sono appunto gli unici che ci possono dire che esistiamo, che siamo unici e che continuamente cambiamo. Ogni luogo è specifico per l’uso che se ne fa, per l’immaginario che vi proiettatiamo sopra (il futuro e il passato sono entrambi presenti nei luoghi che viviamo attivamente), per l’assunzione che ne fanno gli abitanti e i passanti. I luoghi costruiti devono poter essere modellati dalle persone.
Abbiamo voluto dare una temporanea faccia nuova a un luogo conosciuto. Piazza Verdi: sei bella sotto queste orbite di luce dorata, ci piaci un po’ asimmetrica, sghemba e arruffata.

Da bolognesi di adozione, vi sembra sia cambiato negli anni il modo di essere e percepire la città?
La percezione della città di Bologna e le sue problematiche sta lentamente cambiando, ha toccato il fondo e ora sta risalendo. I miti centenari o risalenti alle giovinezze di tutte le generazioni sono duri a morire, ma ci sono luoghi civilissimi del mondo in cui l’abitudine europea di crogiolarsi negli allori che risalgono al Medio Evo, o anche al Novecento stesso è del tutto inconcepibile. Nemmeno qualcosa di accaduto 5 anni fa sarebbe citabile. Ma fortunatamente Bologna non è una città per vecchi (siamo sicuri che anche i numerosissimi vecchi potrebbero metterci la firma) e siamo convinti che gli interventi creativi influiscano proprio sull’autostima collettiva.
In particolare sulla zona universitaria o sulle periferie, l’etichetta di “degrado” non funziona, produce solo frustrazione in chi la pronuncia e in chi è giudicato. Il de-grado è un’idea di secondo grado disarmante e improduttiva (l’hanno capito quasi tutti), poiché presuppone un grado di accettabilità che si situa in un passato edulcorato e al di fuori dalla complessità della storia contemporanea multiculturale e globalizzata. Ma il suo antidoto non è nemmeno la “movida” o la “gentrification”. Una proposta è proprio “domestication”.