Fabio Acca – Prove di Drammaturgia – 2001


N.K. di Zimmer Frei, o della contraddizione fisica.

“Credo esista una specie di ‘simpatia muscolare’, di analogia ortopedica tra il nostro stesso corpo di spettatori e quello contenuto nell’immagine. Per comprendere realmente i movimenti di porzioni di corpo nel quadrato dell’immagine, si attiva il nostro schema corporeo, comprese le involontarie tensioni muscolari interne”(Anna De Manicor, ottobre 1999).La ricerca teatrale delle ultime generazioni pare oltrepassare definitivamente la tradizione lineare della contaminazione. Piuttosto, riorganizza la vocazione tradizionale del teatro ad assumere il ruolo di un “contenitore da arte totale”, proiettandosi con sempre maggiore frequenza altrove da sé, in luoghi apparentemente differenti per elezione estetica dal teatro. Al contrario, i diversi specifici linguistici che intrattengono un rapporto attivo con la visione spesso maturano una qualità che li avvicina per corrispondenza di obiettivi ad un’idea teatrale di spettacolo. Una condizione trasversale, sottile e rarefatta, che rende il teatro qualcosa di simile a una corrente, a un margine, dove ruoli e peculiarità differenti convivono con grande agilità. Non contenitore, quindi, ma flusso, zona di passaggio che mantiene una specificità teatrale in virtù dell’esclusività del suo compimento scenico. Una relazione che, lasciando all’ombra dello sfondo una ipotetica crisi di soggetto, traduce e riconfigura l’identità del nuovo teatro a partire dall’affermazione di una sua tanto profonda quanto definitiva mutazione genetica. Un’apertura che richiede da parte dello storico di teatro lo sforzo di un’indagine necessariamente interdisciplinare, per poi riconquistare il proprio senso di appartenenza in direzione di una “trasferibilità” di codice. La progettazione teatrale spesso si raggruma, con tempi e soluzioni differenti, attorno ad eventi spettacolari intermedi, non necessariamente vincolati ad uno statuto teatrale in senso stretto, e tuttavia nati da una emanazione teatrale. Così, l’Opera Teatrale, intesa come oggetto estetico chiuso, assume proporzioni più vaste, non circoscritte, rispetto ad un’idea allargata di eventualità spettacolare. In questa prospettiva di nomadismo, la relazione particolare tra video e opera teatrale acquista un carattere problematico, avendo ormai superato l’idea di documentazione – più o meno fedele – del fatto scenico, e di conseguenza la preoccupazione dell’originalità. Essa piuttosto viene proposta come opera in sé, capace di articolare un rapporto diversificato con il fruitore.N.K. – Never Keep Souvenirs Of A Murder di Zimmer Frei, gruppo di punta di quella sorta di factory senza leader che è il TPO di Bologna, è un caso emblematico di questa mobilità dell’oggetto teatrale. Infatti, il tentativo di una sua definizione è quantomai sfuggente, a cominciare dalla fluidità delle responsabilità creative dei suoi autori, Anna Rispoli, Anna De Manicor e Massimo Carozzi. La prima regista, autrice e coprotagonista della versione teatrale; la seconda regista, autrice e coprotagonista della versione video, a cui si aggiunge una terza versione video-installata come film per due schermi; Il terzo autore della scena sonora. Due camere d’albergo sezionano simmetricamente e specularmente la scena. Nella video-installazione la simmetria è data da due schermi o monitor posti l’uno di fronte all’altro che alternativamente o contemporaneamente mandano in onda le immagini, mentre nel video è resa in maniera meno decifrabile attraverso il montaggio, quando non è ufficializzata dalla ripartizione orizzontale di due settori visivi all’interno dello schermo. In questo spazio agiscono le due attrici, il cui ruolo drammaturgico è principalmente quello di accumulare tensione verso un plot continuamente rimandato, attraverso un immaginario che spazia dal teatro al romanzo giallo al noir cinematografico: lo spettacolo teatrale, così come la video-installazione o il video, generano nello spettatore un senso di aspettativa manipolando strategicamente i segni convenzionali di una spy story (il danaro di dubbia provenienza, le valige, i documenti sospetti, le parrucche per un salto di identità, la pistola, l’atmosfera del complotto, le telefonate che segnano alcuni momenti topici della vicenda…) senza che gli elementi possano generare una trama precisa o l’occasione di un senso definitivo. Tutto contribuisce alla costruzione di un evento come distribuzione e concentrazione di climax, attesa di un gesto conclusivo, una inquietudine sostenuta dal sonoro di Massimo Carozzi che letteralmente architetta lo spazio e restituisce l’esterno in forma di minaccia pinteriana. I due spazi non comunicano se non per il carattere omogeneizzante di questo non-stop del climax, per qualcosa che nell’intreccio volutamente mancato costituisce, per lo spettatore, motivo di allerta. Solo il finale riconsegna parzialmente al desiderio di quest’ultimo un’opportunità di senso, nello scambio di identità delle due protagoniste, che si “travasano” l’una nell’altra dai due campi scenici. Un’osservazione progressiva del lavoro nei suoi tre “supporti” fa emergere come lo spettacolo teatrale tenda a semplificare l’ambiguità semantica del video, costretto a consegnare ad una dimensione circoscrivibile dello sguardo gli spazi mentali costruiti dal montaggio delle immagini. La visibile simmetria delle stanze e la compresenza costante delle attrici, infatti, disinnescano in parte le convergenze di senso private dello spettatore. Una constatazione che si fa ancora più decisa in rapporto alla video-installazione. Essa, appunto, distribuendo la visione in due superfici differenti ed opposte che possono mandare immagini in contemporanea, spazializza lo sguardo e riordina il montaggio in funzione di una violenta inclusione del caso.In effetti, la dilatazione progettuale di N.K. amplifica una singolare contraddittorietà di fondo: contrae la dimensione spaziale della percezione in modo inversamente proporzionale alla attesa di profondità messa in atto dall’occasione di fruizione, riverberando sui “supporti” utilizzati quella qualità trasversalmente teatrale di cui si accennava all’inizio. Contrariamente alla tensione della video-installazione, lo spettacolo teatrale sottrae spessore alla visione, come se gli oggetti e i personaggi di questa narrazione mancante prendessero vita in due ambienti cinematografici “formato cinemascope” (così li definiscono gli autori), quasi fossero tagliati in modo da fare passare una cinepresa, riproducendo la sensazione di superficie dei due schermi e restituendo la piattezza di una fruizione video-cinematografica.Un altro importante livello da rilevare in questa drammaturgia di resistenze, evanescente come la sostanza stessa delle elaborazioni elettroniche del video e tuttavia carnale come la materia stessa del teatro, è la fisicità dell’immagine. La scrittura scenica di Zimmer Frei si avvale di uno stile della presenza attoriale in bilico tra iperrealismo cinematografico e astrazione formale, una modalità dello stare in scena che paradossalmente più il video che lo spettacolo avvicina il lavoro del gruppo alla danza. Il montaggio crea uno slancio ritmico che a tratti (soprattutto nelle reiterazioni di alcuni particolari della scena o dei corpi dei performers che sfuggono “biologicamente” ad una visione teatrale, anche giocati con speciale feticismo) ribalta il rapporto di efficacia fisica tra spettacolo teatrale e video. L’inquadratura e il movimento di macchina interrogano direttamente il corpo dello spettatore, lo inducono ad una vertigine fisica, una qualità della percezione ancora più inconsueta se la si pensa applicata ad un mezzo come il video. Il momento in cui, nella video installazione, le due protagoniste si riversano l’una nell’identità dell’altra, richiama lo spaesamento di un vero e proprio attraversamento dello spazio: i loro primissimi piani si fronteggiano dai due schermi, e dopo un breve nero ritroviamo una nel campo visivo che fino a quel momento aveva dato vita alla composizione drammatica dell’altra. Un segno che trascina con sé l’ancestrale valore magico di una tecnologia sempre più “calda” e di un teatro sempre più “freddo”.

Fabio Acca