durata
di Anna Rispoli - ZimmerFrei 2004

Manuele Giannini
Manuele Giannini
Philip K. Dick
Philip K. Dick
La Jetèe - Chris Marker
La Jetèe - Chris Marker
Quando - Presente Multiplo
Quando - Presente Multiplo
Calling All Agents -Tom McCarthy - International Necronautical Society
Calling All Agents -Tom McCarthy - International Necronautical Society

“… fuoco / di un / singolo / suono / che vibra / si piega / e rimbalza / in questo qualcosa / che / perpetuo / persiste / e divora / e non avanza niente / che il tempo / è nell’istante / perché il tempo / è nell’istante … e poi ti vedo / te / e qui mi spengo.”
Manuele Giannini – Sinistri, ampstone, 2004

Nel 1977 Philip Dick fu invitato ad un incontro di scrittori di fantascienza in Francia. A Metz arrivò con una rivelazione. Qualche giorno prima, volendo accendere la luce nel suo bagno, aveva alzato con abitudinaria naturalezza il braccio alla ricerca della cordicella dell’interruttore a filo, ma invano: non esisteva nessuna cordicella! In quel bagno l’interruttore era da sempre stato a muro. L’avvenimento lo sconvolse: la sicurezza con cui aveva cercato la cordicella doveva essere il sintomo di qualcosa di molto più grosso. Era evidente che esistevano in realtà più universi sovrapposti e che lui abitava contemporaneamente in alcuni di questi. In uno di questi universi aveva un bagno con un interruttore a filo.

Per molto tempo abbiamo riflettuto sulla plausibilità di questa tesi. Era come riconoscere in un luogo estraneo una nenia che si ha già nell’orecchio. E ci siamo stupiti nello scoprire che all’interno della comunità scientifica la discussione sui cosidetti “cunicoli temporali” che congiungerebbero universi paralleli non è bollata come volgare arditezza fantascientifica. E che è invece una delle argomentazioni più comuni per verificare la possibilità del viaggio nel tempo. Per Dick l’epifania ontologica è giunta attraverso il corpo, la sua sapienza incosciente. Sebbene la teoria quantistica abbia sollevato la scienza dal ricatto della certezza, e l’abbia orientata verso un principio di probabilità, la plausibilità logica di un viaggio temporale, mettiamo nel passato, rimane questione delicata.

Il “paradosso della nonna” è un classico. Recita così: un viaggiatore del tempo torna nel passato e uccide sua nonna, e ostacola così la sua stessa nascita. Non essendo mai nato, non può però né viaggiare, né uccidere sua nonna. Punto e a capo. Ma se invece che tornare indietro nel tempo nel suo proprio universo, entrasse nel passato di un universo altro dalla configurazione molto simile a quella a lui nota ma ontologicamente diverso? In quel caso non ucciderebbe sua nonna, ma qualcuno che le assomiglia molto. Se esistessero insomma degli scarti laterali rispetto al suo tempo, dei binari paralleli con un altro scorrere temporale, con un altro destino, il viaggiatore potrebbe addirittura rischiare di incontrare se stesso in tenera età o un se stesso depositato nelle proprie azioni qualche frazione di secondo dopo. Imparerebbe qualcosa di più guardandosi negli occhi?

Singolare Plurale

Da sempre, e in modo sempre più radicale, nel lavoro di ZimmerFrei i corpi si sdoppiano. Ho il sospetto che in realtà cerchino uno specchio di sè per guardare oltre come avrebbe fatto Alice, o come un visionario Cocteau per vedere quello che corpo non è. È capitato ai doppi complementari di N.K., che hanno occupato fisicamente l’uno lo spazio dell’altro, che hanno invaso l’universo a loro contiguo forzando un cunicolo spazio-temporale, lo specchio del bagno appunto. È capitato anche ai doppi tangenti di Quando, che vivevano in due emisferi sovrapposti come in una trasparenza cinematografica, che condividevano l’orma con il loro simulacro luminoso, un’immagine proiettata accanto a loro sullo stesso divano, in un presente alternativo. Ed è capitato ai gemelli di Panorama, corpi che rimandano l’uno all’altro, che non rivendicano nessuna particolare parentela, ma che in qualche modo entrano in risonanza reciproca. Sono corpi che riproducono se stessi nella speranza distratta di permanere, si trasmettono messaggi, o valigette contenenti gli oggetti feticcio della loro esistenza, si aspettano all’alba e si osservano rischiando di cogliere un nesso. Tutto questo tra un riposino e un mancamento, ad occhi chiusi.

“…dopo qualche scena emozionante verrà stabilito un paradiso millenario , un regno di giustizia – almeno per quelli che hanno fatto il loro dovere e sono stati attenti…non si sono addormentati, dice la parabola”
P.K. Dick, The Metz Speech,1977

Nel Nuovo Testamento siamo ripetutamenteinvitati a vigilare, ci viene ricordato che molte persone, addormentate, o cieche o non vigilanti, non vedranno l’avvento del Regno, non si accorgeranno nemmeno che un mondo migliore è arrivato. Quando immagino un corpo nello spazio, all’inizio di ogni lavoro, questo corpo dorme. O almeno ha gli occhi chiusi, come me. Come me aspetta. Tendenzialmente aspetta di avere una buona idea per muoversi e fare qualcosa di sensato nello spazio che lo circonda o aspetta persino di creare lo spazio che lo circonda. A volte mi chiedo se proprio in quel momento non ci sia stato l’avvento. Passato, senza che me ne accorgessi. Questo rischio non ci impedisce di immaginare un mondo pieno di dormienti, di occhiobendati, di sleeping masks, di ciechi.

Lavoriamo su mondi semi-reali, così come su mondi privati, spesso abitati da persone in numero pari, che deragliano mentre gli altri personaggi socchiudono gli occhi.

Permanenza

“Lo spazio era negato. Qualsiasi speranza di vita era nel tempo.” spiega La Jetèe di Chris Marker a proposito della mobilità temporale sperimentata da cinici scienziati sul protagonista di una società residuale post-atomica alla ricerca di fonti di sostentamento. La cavia si sposta negli anni guidata dalle proprie emozioni, come se il suo corpo potesse incarnare il tempo. Per la riduttiva società in cui ci è toccato in sorte di vivere, il tempo rimane invece ad una direzione, sebbene non sia chiaro se questa porti davvero da qualche parte. In tutti gli altri aspetti le nostre vite hanno abbandonato nozioni identitarie chiare, coerenti, localizzate; solo per quanto riguarda il tempo i nostri tabù tengono fede. L’attimo presente ci costa fatica, trattenere lo scorrere è una violenza e una grande utopia. Il tempo ci sfugge talmente che per rispondere alla domanda: quanto dura il presente? Dobbiamo abitarlo performativamente. Solo lasciando permanere i nostri corpi in porzioni di spazio per un intervallo di tempo eccedente la norma accediamo alla visione dell’istante in profondità.

Sembrerebbe che condividiamo gli intenti con quel vedutismo tardo-ottocentesco “quello sguardo prospettico sul mondo, quell’organizzazione dell’occhio e della mente che concepisce la bellezza come perfezione immobile, che si avvale di un unico punto di vista e si fonda su un tempo che non scorre”, mentre in realtà ce ne distacchiamo radicalmente. Presupponiamo che il corpo-nel-momento-del-presente non sia un’ipocrisia posticcia, ma riesca davvero ad esentarsi da ogni responsabilità, anticipazione o conseguenza. Che ogni legaccio temporale sia sciolto, ogni rischio sia preso! Ebbene, anche in quel momento quel corpo non sta fermo un attimo, gli stessi legami elettrici che sottendono alla materia e che lo definiscono come unità singolare sono di natura dinamica. Posso perfino visualizzarlo come un pulviscolo denso e vibrante di particelle dall’indole gregaria, all’interno del quale il movimento è costante. E se anche quest’abitudine al coagulo materico che fa di me un “uno” venisse meno? Se lo spazio che separa le particelle tra di loro aumentasse progressivamente fino ad invertire la proporzione tra pieni e vuoti? Se la mia natura divenisse un respiro “tra” le cose? Il mio simulacro sarebbe la sintesi granulare del corpo?

In questo processo di fluidificazione il soggetto non fatica più per segnare il confine tra sé e il mondo, per cercare di spiccare dal suo sfondo, creatura che “guarda” il mondo. Ecco che il mondo eccede se stesso, e fagocita spazio e corpo. Il corpo diventa inevitabilmente plurale e si confonde con l’architettura, scivola tra le pieghe delle strade e nei volumi delle piazze riuscendo ad abitare alcuni precisi istanti di tempo con insistenza, mantenendo una specifica luce, una profondità e un volume. C’è una bella differenza fra l’immobilità e questa realtà in permanenza. Forse è il migliore presente possibile (?).

Posizione

Scegliamo un centro e su questo centro fissiamo il nostro punto di vista come su di un cavalletto. Ora iniziamo a girare con velocità costante. Siamo sempre fermi e sempre in movimento. Nessuna esitazione, sempre ruotando sul nostro perno. Questa nuova configurazione del concetto di corpo inventa una performatività critica piuttosto che una serie di relazioni “naturali” tra soggetti e spazi.

‘Arte non è l’avere qualcosa da dire ma l’abitare gli spazi simbolici, tecnologici e politici in maniera dinamica e ambigua. Il nostro scopo è di portarci dentro la morte in maniera tale che, se anche non riusciremo a vivere, almeno ci permetterà di persistere. Diventiamo agenti attraverso la chiamata”
Tom McCarthy – International Necronautical Society, Calling all agents, 2002