Katia Anguelova, Ilaria Gianni, Paola Nicita – Arte e Critica n.60 set – nov 2009

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Halloween week-end, Coney Island
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Our founders and parents had a dream. Today we dream, as tomorrow is no garantee. Birth Place of Hip Hop, The Bronx
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Achtung Baby! Depression
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Harlem, La Crisi non ferma il Funk.
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Andrew Santana, Arthur av., The Bronx: “I stay here, it’s Hollywood that comes to me”

Se dico “Futuro”, a cosa pensi?

I.G. Avete appena passato un periodo a New York in residenza all’ISCP. Avete vissuto una New York in piena recessione e in pieno slancio di desiderata rinascita (Obama effect). Che cosa vi è rimasto di quel momento e soprattutto, come ha influenzato la vostra esperienza? Ha stimolato idee per qualche nuovo progetto?
E’ stato elettrizzante. Un tuffo al cuore per noi italiani appestati da un’atavica disillusione e da un’inguaribile (e anche un po’ colpevole) dietrologia che vede un disegno occulto dietro ogni promessa. Durante la campagna elettorale non si vedeva nessun manifesto in giro, ma in metropolitana anche le ragazzine di sedici anni parlavano di democratici e repubblicani, sanità pubblica o privata, di guerra in Iraq, Afganistan e anche in Iran. Certo, Obama è diventato una specie di rockstar, ma è veramente riuscito a produrre coinvolgimento e aspettativa dove sembrava non esserci nemmeno la benché minima consapevolezza politica.
In fatto di crisi economica e di politica estera gli americani invece sono dei principianti, sono molto emotivi. Improvvisamente sono atterrati su questa Terra e non sono più riusciti a difendersi da se stessi. Sono commuoventi quando chiedono a noi stranieri: ma perché ce l’hanno tutti con noi? (Ovvero: non lo sanno tutti che noi siamo i buoni?).
Il nostro lavoro è sempre più influenzato dall’incontro con luoghi e persone. Nel nostro prossimo progetto questi incontri giocheranno un ruolo decisivo, disegnando l’orizzonte di una grande domanda. Vivere sei mesi a New York è come fare il pieno. Quello che la frequentazione di questa città ci ha lasciato è un’ipersensibilità verso le “proiezioni di futuro” delle persone. Una curiosità di sapere che fine ha fatto questa parola dentro di noi, e vorremmo capirlo per contrasto, parlando con i newyorkesi.

K.A Prima di continuare a parlare del vostro lavoro vorrei rimanere ancora un attimo nell’entusiasmo post-Obama. Mi chiedo come si percepisca questa vittoria? Non so se Obama riuscirà a fare grandi cambiamenti, ma penso che l’interessante sia l’entusiasmo, perché è legato al fatto di una possibilità. Possibilità che succede; con la vittoria di Obama sembra che anche la “nostra” libertà si allarghi, anche l’obiettivo delle decisioni cambia.
L’obbiettivo è indicibile, non ha nemmeno un nome proprio. Bisognerebbe inventare una parola nuova, una parola affermativa al posto di decrescita, regressione, depressione, decadenza, declino. Da molto tempo capitalismo e “progresso” si sono indebitamente sostituiti al destino stesso. Proposte: Frugalità? Essenzialismo?
Presentando il piano economico di Obama, il 10 febbraio 2009, il segretario del Tesoro Timothy Geithner ha detto: “Voglio essere sincero. Questa strategia costerà danaro, comporterà rischio e richiederà tempo. Dovremo adattarla man mano che le condizioni cambiano. Dovremo fare cose che non abbiamo tentato di fare in precedenza. Faremo errori. Passeremo periodi in cui le cose vanno peggio e il progresso è improbabile o interrotto.”
Sarebbero state parole impensabili per la tracotante amministrazione Bush. E in Italia? Vi immaginate l’attuale Presidente del Consiglio che abbia il coraggio umano di dire “faremo errori”? Il procedere per tentativi è già stato battezzato (ad esempio da Franco Bifo Berardi) “pragmatismo post-partisan”. Ed è molto interessante, per noi artisti, osservare questo approccio “sperimentale” alla politica.
Però finché non decadono i prefissi post, de, anti non abbiamo ancora preso il largo.

I.G. Ho recentemente ascoltato una discorso di Zizek che affrontava la sessualità di Obama, interpretata come l’oggetto del desiderio contemporaneo. In un certo senso Obama è diventato quasi un Messia contemporaneo (nel senso più ampio e non prettamente religioso di Messia. Quanto credete sia necessaria la figura di salvatore oggi? Cerchiamo una redenzione, una guida?
Durante quest’ultimo viaggio a New York abbiamo deciso di incontrare le persone per strada,
fermare degli sconosciuti e fargli delle domande. Spesso discutevamo insieme di futuro, una parola volutamente troppo grande, ingombrante, ambigua, per noi (europei disillusi?).
Siamo rimasti colpiti da quante persone abbiano un “dream”, una missione, un grande obiettivo. I passanti di fronte alla camera diventano subito predicatori: salvano i perdenti (o loro stessi che si sono persi?), vogliono liberare le strade dalla violenza, dall’odio razziale oppure dai negri, dall’ingiustizia piuttosto che dai senza tetto che insidiano i ragazzini di fronte alle scuole. Spesso si tratta della salvezza della loro comunità o della loro personale redenzione. Ma non è più solo questione di “farcela”: la battaglia è per conquistarsi un posto tra i giusti. Tutti sanno cosa devono fare. Conoscono il futuro. Vogliono salvarsi. Il cinismo non esiste più.
Nel Bronx incontriamo un gruppo di ragazzini futuri campioni di football e provetti danzatori. “Se dico “futuro” a cosa pensi?” gli chiediamo. E loro, uno dopo l’altro: “good!” “Good” mmmh…GOoD” rispondono. In quel momento abbiamo capito GOD. Ma forse era solo la pronuncia slabbrata del Bronx.
Personalmente non cerchiamo una redenzione (non abbiamo ancora finito di perderci).
Obama è una figura attesa, necessaria, ma non ci sembra sia un messia. Di sicuro è diventato “divo”. Il suo staff ha una dimestichezza con i media vecchi e nuovi che perlomeno dovrebbe convincere noi italiani che comunicazione non vuol dire per forza populismo, squalificante e criminoso. Perché cercheremmo una redenzione? E’ vero. abbiamo molte colpe, ma non dobbiamo interiorizzare anche la cattiva coscienza della politica criminale a cui abbiamo consentito di governarci. Come dice Wu Ming 1, dobbiamo preoccuparci di noi e del mondo, non in nome della Madre Terra, lei se la caverà benissimo (le sarà indifferente trasformarsi in un deserto minerale grigio e arancione o esplodere in una nana bianca) siamo noi che rischiamo la pelle, noi e i nostri bambini. Sui giornali e nei discorsi con i coffee-to-go in mano gli americani rimproverano a Obama l’inesperienza, l’incompetenza (da che pulpito!), ma il fulcro e l’aspirazione della sua politica è proprio provare l’intentato, procedere per mediazioni e non con il dogmatismo dell’ideologia. A volte è stucchevole, ma sicuramente ha il dono dell’umiltà elegante. E non bisogna chiedergli di fare il supereroe.

K.A. Mi ha fatto piacere sapere che la gente parlava di politica nella metropolitana.
E visto che l’attività degli esseri umani è condizionata dal fatto che vivono in società possiamo forse parlare di una possibilità di organizzare il campo politico in relazione con il privato, si sa che una volta separati questi due portano alla decadenza politica. Vedete segni di questo tipo?
Non sappiamo se in giro si vedono segni di questo tipo. Sicuramente siamo tentati dall’immaginare comunità, gruppi di persone sodali e solidali, che abbandonano il campo dell’economia dominante che crolla, un numero crescente di individui che smettono di cercare lavoro e creano la propria rete autonoma di attività. Micro-comunità per ora molto temporanee che sappiano creare un’economia dell’uso condiviso di beni comuni, e che liberino tempo per la cultura, per il piacere e l’affetto.
Questo processo si può già registrare, in alcune delle nostre vite, nel modo in cui le conduciamo e nelle reti umane che proviamo a creare. Chiaro, basta guardarsi attorno ed è facile individuare una maggioranza conformista, prodotta dal totalitarismo mediatico, (la situazione italiana è lampante in questo senso) che è spaventata dalla possibilità di questo esodo delle intelligenze condivise. Una maggioranza conformista che trova il proprio collante esistenziale nelle paure imposte mediaticamente.
In questo contesto crediamo sia necessario difendere ed estendere questo campo delle intelligenze condivise, o almeno provare ad immaginarle.

K.A. Ogni progetto definisce un linguaggio e atteggiamento diverso, ma questo nuovo lavoro sarà una sorta di ritratto del paesaggio urbano? potete parlarci della vostra idea e perché volete sentire la gente delle 5 città?
Non faremo un ritratto di New York, sarebbe impossibile. Nel nostro nuovo lavoro video New York non verrà mai nominata. Ci servirà come scenario da cui staccare delle figure, un altrove da cui guardare i luoghi da cui veniamo.
La formula più breve che abbiamo trovato è Unidentified Narrative Object (UNO – definizione di WuMing) in cui si parla di noi nel tempo futuro servendosi di un luogo dislocato.
Una nostra fissazione è riuscire a vedere il tempo. “La Storia non avviene nel tempo ma ha luogo nei luoghi”, dice Giuliana Bruno in Atlante delle emozioni. Perciò faremo una cosa semplice: percorrere lo spazio, metro per metro. Dobbiamo camminare molto, calpestare la terra in superficie, uscire dei tunnel ciechi dei trasporti veloci.
“La storia vede il mondo dal lato della morte, come un insieme di reperti funerari, la geografia dal lato della vita» dice ancora la Bruno. Non faremo una mappatura né un reportage, ma una messa in opera di geografia sentimentale. Ogni evento si svolge in un luogo, anche i pensieri (ho deciso sul tetto dello studio di Metropolitan avenue, mi è balenato entrando nel Wintergarden del World Financial Building, ho ragionato tornando a casa di notte, mi è apparso come un allucinazione nella DreamHouse di La Monte Young, ho intuito addormentandomi nel loft di Bushwick…).

P.N. Volevo chiedervi qualcosa riguardo la nuova percezione del pericolo; difendersi dall’altro, la cultura del sospetto, l’essere irregolare rispetto alla legge posseggono ancora ora, dopo il periodo del vostro soggiorno che ha coinciso con l’elezione di Obama, un peso così grande? Che cambiamenti avete registrato a NY per voi non previsti?
C’è stato un momento in cui i governi occidentali hanno invitato, attratto in maniera quasi ipnotica, i propri cittadini ad uscire di casa e comprare, a fare shopping compulsivamente. Shopping come deterrente contro il terrore e contro la depressione psichica da stato di guerra. Ma questo accesso massiccio al consumo è stato finanziato da un indebitamento senza limiti. La popolazione euroamericana è stata sistematicamente spinta a comprare un ammasso di cose inutili, è stata intossicata mentalmente dalla pubblicità e costretta a identificare la felicità con il consumo e il benessere con il possesso. Tutto questo succedeva durante il mandato Bush e di riflesso anche qui in Europa. La seconda presidenza di Bush era ancora in rapporto diretto con lo spettro del pericolo, con la paura. Poi la realtà quotidiana si è imposta come più forte, più “degna”. E gli americani hanno cominciato a pensare “noi siamo meglio di così”. Nonostante il macello generale Barak Obama si ritrova un mandato straordinario. Adesso non sono più tutti fissati con il nemico, la guerra di religione, il culture clash e l’ “esportazione della democrazia”. Piuttosto sono ossessionati dall’economia e dai loro grattacapi, hanno paura della povertà e forse anche della Natura. Ma almeno si danno la possibilità di inventare, di cambiare e, miracolo, anche di sbagliare.
Tutto questo è solo una parte ovviamente. Esiste anche chi distribuisce opuscoli contro la riforma sanitaria dell’attuale governo – definita nazista – in cui in copertina si vede Obama stringere felice la mano a Hitler. Un’immagine che ti rimane in testa. Crediamo che quello che sia rimasto dall’era Bush sia la cultura dell’allarmismo, della mistificazione, dello scandalo pubblicitario. Usare parole forti per forare il muro della saturazione mediatica. Creare mitologia. Creare racconto a tutti i costi. E non è forse l’altro lato di quel colore eccessivo, di quella mancanza di misura così generosa e così stolta, di quella frontalità fideistica che ci lascia a bocca aperta, ma anche di quella sensualità, di quella potenza, insomma non è forse questo il lato ripugnante di ciò che ci affascina?

PN In una città come NY l’attuazione delle politiche sociali rivolte ai giovani diviene un motore essenziale per la crescita e lo sviluppo. Cosa ne pensate? E riguardo l’Italia?
Non conosciamo approfonditamente le politiche sociali giovanili di NY, abbiamo solo visto molti piccoli playground in cui si gioca a basket o a handball, due contro due, a mani nude contro un muro di cemento. Quando piove non sappiamo cosa facciano tutti quanti. In Italia esistono i giovani? Non si erano estinti? Qui Cormac McCarthy potrebbe scrivere “Un paese per vecchi”, un’intera popolazione che si aggira tra macerie recentissime e millenarie in preda a un’insana follia collettiva in cui tutto fa paura: la morte, la non-vita, la vecchiaia, la vecchiaia della carne, gli stranieri, la povertà, la cacca dei cani, il fumo dentro e l’alcol fuori, la droga, le malattie, i matrimoni, gli amori, i peccati, i bambini che piangono, i ragazzini che schiamazzano, il mangiare troppo o troppo poco, le scritte sui muri e sui giornali, i cattivi pensieri, i pensieri stessi, i sogni…

PN. In che maniera NY continua ad essere un luogo di produzione di immagini, e dunque di immaginario? Il linguaggio video è percepito differentemente rispetto ad altri luoghi e contesti in cui avete lavorato?
New York è diventata una città normale. Certo, è una città molto vitale e una delle poche in cui puoi diventare un autoctono, da ovunque tu venga (anche senza Green Card…). Ma non è più la capitale dell’immaginario, non lo più è nemmeno per noi. Le nuove città che scrivono il presente hanno una strana allitterazione in “ai”: Mumbai, Shanghai, Dubai…
E tra l’altro i fenomeni più interessanti accadono a Brooklyn, nel Queens, nel Bronx.
Ad esempio la “gentrification” di Brooklyn, che ha interessato le zone di Park Slope, Dumbo e Williamsburg, potrebbe non rispettare lo stesso copione previsto dagli investitori delle real estates (che ancora capitalizzano su Greenwich e East Village, su Chelsea e Meatpack District). A Bushwick (come a Harlem) le cose potrebbero andare diversamente, gli affari potrebbero rivelarsi un boomerang e gli artisti potrebbero non fare sempre la parte dei pionieri hipster che aprono i caffè e i negozietti vintage per lasciare il posto agli speculatori. Purtroppo però a Fort Greene costruiranno il nuovo stadio e spazzeranno via quel piccolo villaggio di giovani famiglie e gente varia che si è appena radicata.
Abbiamo passato tutto giugno a filmare luoghi e persone e le reazioni sono state diverse tra loro: i Satmar non possono essere fotografati da persone non ebree, lo dice il loro dio, gli italiani di terza o quinta generazione di Brooklyn si commuovono all’idea di un’Italia tutta da mangiare; gli ebrei Lubavitch sono sospettosi ma poi si entusiasmano nel raccontare il loro quartiere, Crown Heights, dove orgogliosamente convivono con i neri caraibici e dove i rastafariani ripuliscono le strade dagli spacciatori; nel Bronx due ragazzi portoricani si sono fatti da soli il loro clip davanti alla camera improvvisando freestyle in spanglish, e lanciando predizioni sul futuro “I’ll stay here. Hollywood will come to me. The future is here”
Tutti comunque fanno quello che vogliono del nostro video. Non rispondono alle nostre domande, parlano delle loro cose, della loro “mission”, sono totalmente a loro agio davanti all’obbiettivo ma decidono sempre se, quanto e come ci vogliono stare.
E poi vogliono vederle quelle immagini, dobbiamo spedirgliele per posta, metterle su YouTube, su MySpace o Facebook, lasciargliele dal doorman o a casa di mamma, che loro non ci sono mai.

I.G. Nello specifico ci potete raccontare su cosa avete lavorato a N.Y.? Cosa vi ha ispirato il territorio, la situazione sociale e urbana? C’è un percorso specifico che avete intrapreso?
Tra newyorkesi ci si fa spesso una domanda la cui rudezza non preoccupa più nessuno: What are you? Che cosa sei tu? Ebreo? Polacco? Italiano? Portoricano?
Noi abbiamo incontrato “italiani” che non sanno che Bologna non è in Spagna. Era quello che credeva Nick, per esempio, il gestore della grocery accanto all’ISCP.
Sembra che l’appartenenza sia più tribale che geografica. Non vieni from somewhere, ma with someone. E non si tratta solo di abitare in un quartiere dove ci sono i tuoi simili per poter “trovare le mozzarelle come le faceva nonna” o “comprare il nian gao fresco” per il Capodanno cinese. Le comunità hanno una gerarchia, e tu erediti territori e speranze dai tuoi compatrioti. Quello che condividi è principalmente un racconto, una narrazione grande abbastanza da includerti. Immagino che quando la terra ti manca sotto i piedi, vuoi che la tua mitologica Terra ti protegga da lontano, e che la tua gente qui ti riconosca, e vuoi sapere chi sei.
Questa famelica ricerca d’identità non può non riguardarci.
Alcune domande che stiamo utilizzando sono: Dov’è il posto che chiamiamo casa? Dobbiamo lasciarci alle spalle i luoghi da cui siamo partiti? Il tempo dell’Italia si è esaurito? O è l’Italia stessa che è finita? Come faremo ad accorgerci dell’ultimo momento possibile per partire, quando ancora possiamo scegliere? Possiamo staccarcene veramente? O disponiamo solo degli spostamenti? In che misura disponiamo del nostro futuro? E come ne riconosceremo l’inizio?

K.A. / I.G. / P.N.: Una parola sull’importanza della residenza per voi. Cosa vi ha dato il soggiorno in termini lavorativi?
All’ISCP ogni tre mesi si forma una diversa comunità temporanea. A volte hanno tutti le porte chiuse, altre volte gli studi sono sempre aperti (tanto che ci arrivano anche i ladri), ci sono vite e storie simili ai diversi capi della terra oppure intere famiglie e gruppi di lavoro che migrano insieme, artisti di vent’anni e di cinquanta. Può accadere che tutti si mescolino con tutti oppure che ognuno si chiuda nel proprio smarrimento da metropoli.
Abbiamo conosciuto artisti di cui ci è piaciuto molto il lavoro o di cui siamo diventati amici, curatori con cui ci piacerebbe lavorare in seguito e anche una persona e un pensatore straordinario, Robert Storr.
Abbiamo fatto uno screening e una personale a Williamsburg, una collettiva all’ISCP curata dal bravo Miguel Amado, e si parla di una mostra nell’autunno.
New York è diventata una delle nostre vite che scorrono in parallelo, una delle città che ci stimola a lavorare e a cui torneremo ancora e ancora nei prossimi anni.
Ma forse questa residenza ha fatto anche qualcosa di più. Ci ha dato la distanza giusta per guardare all’Europa con rinnovato, critico amore.

Katia Anguelova, Ilaria Gianni, Paola Nici