Francesco Tenaglia – Blow Up – luglio/agosto 2012

In “Fausto”, video del ritorno alla discografia dei Massimo Volume, la band è ritratta da una videocamera che ruota su se stessa in un unico, lungo piano sequenza. Disposti nella stanza in cui stavano effettivamente registrando l’ultimo disco, i musicisti imbracciano gli strumenti, danno plettrate e colpi sulle pelli, entrano in pause riflessive e smettono di suonare con tempi slittati rispetto all’andamento della musica. L’idea – del gruppo ZimmerFrei, composto da Massimo Carozzi, Anna de Manincor (con base a Bologna) e Anna Rispoli (di casa a Bruxelles) – costruisce un’arena in apparenza semplice in cui pulsa e, lentamente, cresce l’epica del microscopico sprigionata dal testo di Emidio Clementi. Il collettivo ZimmerFrei è stato fondato nei primi anni duemila e si è immediatamente identificato in uno sguardo geneticamente eterogeneo, attraversato da rimandi alla storia di molti linguaggi – cinema, musica, teatro, fotografia – “ derivante da percorsi e inclinazioni diversi, che nell’esperienza del lavoro di gruppo si sono fusi secondo modalità proprie di ogni progetto. C’è un’elaborazione teorica collettiva, e c’è una prassi in cui i ruoli si definiscono secondo le competenze che abbiamo maturato nel tempo. Ci muoviamo prevalentemente nel campo dell’arte contemporanea, perché si è dimostrato il più ricettivo nei confronti di questo eclettismo. Ma, in ultima analisi, ci riteniamo dei filmmaker”. La tecnica del videoclip di Fausto, il punto di vista che ruota continuamente su se stesso, discende direttamente da una serie di ritratti – “panorami” – di aree urbane che ZimmerFrei ha iniziato nel 2004 a Roma per poi proseguire a Venezia, Amburgo e altre località: in questi lavori, le riprese velocizzate stilizzano i movimenti e le azioni dei passanti casuali, mentre nelle stesse inquadrature si svolgono piccole storie parallele, leggibili allo sguardo perché gli attori che le performano si muovono con tempi, nella realtà, lentissimi. Due linee temporali parallele che si incuneano in un set urbano, un film di fantascienza reso scheletrico al punto che ciò che resta è la sottile inquietudine di un’alterità mai conciliata. L’interesse per la vita nelle e delle città – spesso presente nel lavoro di ZimmerFrei – si rivela elemento centrale di LKN Confidential (2010), video che propone il racconto cunicolare di una via di Bruxelles (Rue de Laeken, da cui il titolo che rimanda, naturalmente, a LA Confidential) attraverso le testimonianze raccolte tra locali che vivono e commerciano nel quartiere: le tecniche di ripresa, il trattamento delle immagini e dei suoni e il montaggio alludono al noir cinematografico, suggeriscono l’evaporazione dell’aspetto documentaristico in pura finzione per poi ritornare, inversamente, ai codici di quella che siamo abituati a riconoscere come rappresentazione, in forma di audiovisivo, della realtà. Sembra aleggiare, in questo gioco di specchi, un grande assente o forse una grande verità che potrebbe svelare un punto comune a tutte le storie della via. Eppure rimane sempre fuori campo: “il lavoro gioca su un crinale un po’ pericoloso, sia formalmente sia concettualmente: esiste una realtà che abbiamo il compito di rivelare? L’unica realtà che possiamo mostrare è quella che passa per il nostro sguardo. Siamo gli occhi che attraversano un labirinto, fatto di porte, cantine, atrî, parole, persone, incontri. Viene anche dichiarata la capacità e l’autorità di inventare, di sognare a occhi aperti, di trasformare la realtà nell’esatto momento in cui la guardiamo. È come cercare elementi di fiction, di sapore cinematografico, e riconoscerli già all’interno della realtà”. Accade anche in uno dei lavori presentati nella grande personale Campo Largo svoltasi presso il museo MAMbo nel 2011: Senza Titolo (di un dio minore) è la registrazione di un’intercettazione telefonica in cui due uomini di età diversa, tra silenzi e innumerevoli impliciti a volte carezzevoli a volte ostili, discutono di favori e di un figlio da sistemare costruendo una messa in scena emotivamente complessa. L’elemento di fiction in questo caso scaturisce dagli atteggiamenti da film sulla mafia che i due hanno evidentemente introiettato e che filtra, magari inconsapevolmente, nel tessuto della conversazione: “il riferimento politico più immediato non è alla corruzione della classe dirigente quanto alla questione generazionale, che è un problema antico diventato permanente nell’Italia contemporanea. C’è una generazione più anziana che detiene il potere, ha perso autorevolezza ma non accetta il trapasso: così, per mantenersi in vita, sta sbarrando di fatto il passaggio di qualsiasi forma di potere ai più giovani. Nella conversazione si parla di trovare un lavoro per il figlio del più maturo; allo stesso tempo, l’interlocutore più giovane incarna il figlio che l’altro personaggio avrebbe voluto avere. I nomi o i fatti chiaramente illegali commessi sono rimasti – intenzionalmente – fuori dalla conversazione: ci interessano invece i ruoli, le emozioni intense che si scatenano tra i due e i fatti generalissimi cui si riferiscono”. La famiglia è di nuovo protagonista in una serie di scatti fotografici che ha dato il nome a una mostra organizzata nel 2010 presso la Galleria Monitor a Roma (Tomorrow is The Question): due giovani genitori circondati dai figli e accompagnati da un’altra figura truccata camminano a Coney Island. La spiaggia e lo storico parco dei divertimenti ormai in disuso si trasformano in uno scenario desolato, ma con echi spirituali. Il gruppo di umani assomiglia a una piccola tribù nomade, scampata a un disastro o in fuga da un pericolo ignoto, alla ricerca di un nuovo inizio: “Più di dieci anni fa, ascoltammo un brano di Steve Peters, Santa Fe Parking Lot; il nostro lavoro ne venne fortemente influenzato. È un testo parlato immerso in un ambiente sonoro molto denso, che diventa subito un film interno per l’ascoltatore. La voce prende i suoi tempi mentre si muove e diventa rapsodica: «Mother, can you hear me? I go shopping often in the evening, when it’s cool. And I hate it here. Something dark is happening. I wanna stop, but I’m afraid. Oh, Amazon… I want to explain you something that’ll make you think, that’ll make you hear me better. […] I could die here. You’d notice. Do you believe me that I don’t have any children. I was born on the 14th on May. A small boy in red shoes and blue shirt, two fingers in his mouth. He could be mine. This is a wonderful place, can you hear it?». Quel pezzo fu decisivo nel formare un modo nostro di guardare il reale, e ci suggerì una posizione di ascolto che spesso abbiamo adottato nei nostri lavori. Così come i documentari di Werner Herzog, da “La grande estasi dell’intagliatore Steiner” a “The Wild Blue Yonder”: ci appostiamo in un luogo che riconosciamo (anche se non ci siamo mai stati) e, mentre le cose accadono e i racconti emergono, il luogo si deforma e si cominciano a intravedere cose e fatti invisibili, passati o futuri”. L’ispirazione, a volte, viene da più vicino: “altri riferimenti sono più mobili, dettati da scoperte e riscoperte anche casuali. Recentemente abbiamo rivisto «Avere Ventanni», una serie televisiva realizzata fra il 2004 e il 2006 da Alberto Piccinini, Massimo Coppola e Giovanni Giommi, che attraverso la tecnica del documentario dipingeva un affresco generazionale e sociologico dell’Italia profonda, devastata dal quindicennio berlusconiano, e l’abbiamo trovata straordinaria”. Ecco, arriviamo a questo punto, l’Italia: gli ZimmerFrei hanno in cantiere una serie di video simili in spirito a quello realizzato nella famosa via di Bruxelles e ambientati in varie parti del mondo (la prima tappa, a giugno, si svolgerà a Budapest, in Ungheria); qual è oggi il loro punto di vista – come persone attive nelle arti visive – sul paese? “Per curiosità e necessità abbiamo sempre guardato fuori dai confini italiani, e negli ultimi anni la gran parte della nostra attività si svolge in contesti europei. Abbiamo trovato interlocutori che ci hanno proposto di guardare la loro realtà con i nostri occhi, che sono fondamentalmente italiani. I nostri ultimi lavori sono esplorazioni di territori urbani per noi sconosciuti: andiamo a vedere come vive la gente nei quartieri di città come Budapest, Copenhagen o Marsiglia, cercando persone che ci raccontino cosa fanno nelle loro strade, come sono le loro case, che ci insegnino, in qualche modo, a vivere le loro città. E raccontiamo questo processo. Poi torniamo sempre a casa, a Bologna e a Bruxelles”.

Francesco Tenaglia