Bruno Di Marino
VEDUTE DI CITTA’ E TRACCE FANTASMA
La memoria del cinema nell’arte di ZimmerFrei – Campo | Largo – ed. Corrain/MAMbo 2011



Sono state soprattutto le avanguardie storiche a insegnarci che la nozione di città e quella di cinema costituiscono un binomio indissolubile della modernità. La trasformazione della metropoli tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, non è solo architettonica o urbanistica ma, come sappiamo, ha conseguenze percettive. Letterati, filosofi, artisti e cineasti come Baudelaire, Benjamin, Boccioni, Léger, Vertov, Ruttmann hanno raccontato nei loro saggi, quadri e film come l’idea stessa di città era legata alla dimensione cinetica e come luci, forme e ritmi contribuiscano a rendere la scena urbana una sorta di rappresentazione spettacolare dal vivo. Non è un caso che per anni le vedute di Edison e dei Lumière costituiscano il primo grande “genere” cinematografico. Così in molti lavori – installativi o meno – in cui ZimmerFrei utilizza l’immagine in movimento, la città è non solo protagonista in quanto contenuto o soggetto della visione, ma condiziona il dispositivo stesso della messa in scena, come nel caso dei panorami.

La piazza è il luogo di incontro e di dialogo che da sempre caratterizza la civiltà occidentale, a partire dall’antica agorà greca. La piazza è anche lo spazio su cui la pittura italiana, fin dal Rinascimento, ha esercitato il suo sguardo. Teatro svuotato di presenze umane che diviene la scena primaria della rappresentazione, il grado zero di una visione esatta, come nelle tre tavole della Città Ideale, oppure la piazza popolata di personaggi – storici, mitici o metaforici (da Raffaello al Veronese) –, fino al genere del Vedutismo, perfezionato in una Venezia settecentesca dove l’esplorazione prospettica si fonde con la sperimentazione cromatica e luministica. Nell’800 la veduta si perfeziona, diventa ancor più spettacolare, avvolge lo spettatore a 360° e anticipa l’evoluzione verso la fotografia e il cinema, attraverso il dispositivo del panorama. Sarà infine proprio la rappresentazione cinematografica a segnare l’ultima e decisiva trasformazione del genere, grazie allo scarto del movimento, che offre la possibilità di ricreare il brulichìo, il caos, il transito di persone e mezzi di trasporto, rendendo la scena viva e pulsante: le vedute Lumière trasportano lo spettatore nelle piazze di tutto il mondo, dandogli la possibilità di abitarle per pochi minuti, di spostarsi senza in realtà mai muoversi dalla sedia di una sala immersa nell’oscurità.

I panorami realizzati da ZimmerFrei si ricollegano idealmente a cinque secoli di rappresentazioni artistiche, ma nascono anche dalla necessità di teatralizzare il paesaggio urbano, di mettervi in scena non una narrazione vera e propria, bensì microeventi, spostamenti, possibili trame. Per fare ciò ZimmerFrei ha brevettato un particolare dispositivo di cinematografia a tempo: la videocamera è montata su una base che compie una rotazione di 360° in un’ora.
Le panoramiche circolari che compongono questi video, sono state filmate in alcune piazze italiane (Piazza del Popolo a Roma, Piazza Maggiore a Bologna, Campo Santo Stefano a Venezia) e straniere (Atene, Amburgo), registrando una serie di azioni compiute nell’arco di diverse ore, contratte in fase di editing a pochi minuti, grazie all’accelerazione delle immagini. Da un lato ci sono le variazioni luminose e meteorologiche, il passaggio dal giorno alla notte o dalla notte al giorno, o il viavai dei passanti che si trova casualmente inglobato nell’orizzonte visivo; dall’altro vi sono performance minimali che – per essere registrate dalla camera – vengono eseguite con molta lentezza. Più che di azioni dovremmo parlare di veri e propri happening, realizzati dagli stessi artisti e da altri performer ma anche dal pubblico inconsapevole.
Discrasia temporale, scarto tra due dimensioni che entrano in conflitto – lo scorrere naturale del tempo e quello artificiale dei performer che disseminano il video di suggestioni narrative – sono due costanti dell’estetica di ZimmerFrei. In questi esperimenti confluiscono e arrivano a sintesi ambiti espressivi diversi: dalla pittura di cui abbiamo già parlato al cinema (pensiamo non solo al vedutismo delle origini, ma sopratutto ai film sperimentali basati sulla tecnica del time lapse), dal teatro alla danza (una narrazione stilizzata di gesti e movimenti) fino naturalmente alla musica contemporanea (suoni, parole, rumori costituiscono un vero e proprio secondo livello narrativo).
ZimmerFrei limita o annulla gli effetti di post-produzione elettronica. In alcuni panorami tutto tende al piano-sequenza se non per alcuni stacchi sull’asse, con la visione di dettagli del luogo e dei personaggi, che permette loro di creare scansioni linguistiche e rompere l’ipnosi percettiva dello spettatore ma anche, più banalmente, di cambiare il supporto di registrazione. E’ per questa ragione che lavori come Panorama_Roma o Panorama_Bologna con le piazze trasformate in quotidiani teatrini dell’assurdo per diverse ore, o The Colony (girato invece ad Atene con la stessa tecnica, anche se nominalmente non fa parte della serie dei panorami) trasformato nel set di un film di science-fiction, si avvicinano stilisticamente più alla tradizione del cinema sperimentale che a quella della “videoarte”. Differente invece la struttura di altri episodi della serie, come Panorama_Venezia, dove la visione risulta scomposta grazie all’uso dello split screen: nell’inquadratura sinistra scorre la panoramica, in quella di destra i dettagli della scena. Una variazione sul tema che sottolinea l’idea di simultaneità dell’azione e dei punti di vista, prestandosi alla forma dell’installazione doppio canale, ma anche alla sonorizzazione live: altra modalità di fruizione che accompagna alcuni lavori di ZimmerFrei e che rende le immagini video “opere aperte” concepite per accogliere forme sonore sempre diverse.

L’immaginario filmico ritorna spesso in ZimmerFrei. Particolarmente cinematografico, dicevamo, è il sottotesto di The Colony, ispirato al finto documentario di Herzog The Wild Blue Yonder ma che sembra alludere anche a film come Paris nous appartient di Jacques Rivette o La Jetée di Chris Marker. I personaggi che appaiono nella solita panoramica circolare (allestita in Propylea Platia, la piazza dell’Università di Atene), sono infatti una sorta di alieni che hanno tentato di invadere anni prima il pianeta Terra e attendono ora di essere riportati a casa. La location di The Colony è – forse non casualmente – proprio una piazza greca: al di là della trama narrativa e delle performance estemporanee trascritte dalla videocamera, assume un profondo significato simbolico e culturale, un ritorno alle origini (la Grecia come culla della nostra civiltà, luogo in cui è nato il concetto stesso di piazza), che si mescola, per contrasto, alle suggestioni del futuro.
Anche Panorama_Harburg costituisce una variante rispetto alla serie. Il primo breve capitolo (Outstation) è una panoramica notturna sul cavalcavia che domina uno snodo ferroviario, filmata in tempo reale, senza cioè alterazioni, e potrebbe essere letta come il classico incipit di un film narrativo: produce un senso di attesa senza ulteriori sviluppi; il secondo capitolo, Campsite, ambientato su uno dei canali della città, ci riporta invece alla tecnica del time lapse. Ma ciò che segna una cesura profonda tra questo e i precedenti panorami, è la scelta di ZimmerFrei di abbandonare la rigidità della ripresa circolare di tipo lineare, prima creando movimenti di macchina irregolari e cioè non su un solo asse, poi lavorando maggiormente sul montaggio: per esempio spezzando la panoramica circolare prinicipale non solo grazie a dettagli, ma anche mediante l’inserto di altre brevi e veloci panoramiche, aggiungendo infine didascalie che rendono più complessa la lettura delle immagini. Il terzo capitolo (Pasture) ci mostra una veduta diurna del centro cittadino, con l’inserimento perfino di qualche dialogo in e fuori campo.
Panorama_Harburg appare dunque più ritmico e frammentario, come se il collettivo avvertisse la necessità di allontanarsi da quella norma da essi stessi codificata in precedenza, rendendo la “narrazione” visiva più composita e frastagliata. All’interno del terzo capitolo c’è, inoltre, un’interferenza estremamente significativa: due persone entrano in campo sorreggendo un grande pannello fotografico su cui è ritratto un gregge di pecore: intermezzo bucolico (proprio come gli intervalli televisivi di antica memoria) che crea un’ulteriore variazione di livello (contrasto città/campagna, immagine fissa/in movimento) all’interno della trama audiovisiva. Verso la fine di Panorama_Harburg, annunciato da uno scampanellio, vedremo materializzarsi sulla scena un vero pastore e delle vere pecore, rafforzamento del circuito virtuale/reale.
In realtà nella videografia di ZimmerFrei la struttura circolare della rappresentazione fa la sua comparsa anche al di fuori della serie dei panorami. Il video Why we came, girato sulla spiaggia di Berchida in Sardegna, è costruito sempre su una panoramica di 360°, pur se interrotta, frantumata da stacchi e dissolvenze. Sulla scena si alternano un cane, dei cacciatori, una ragazza con una vanga…, microazioni che scandiscono lo scorrere del tempo e il passaggio continuo dal movimento reale a quello accelerato che è poi la cifra espressiva dei panorami. Il risultato è però quello di una narrazione a loop sospesa, fortemente allusiva e simbolica, che si ripega su sé stessa, come cinema infinito, che poi è significativamente il titolo di un progetto ideato da ZimmerFrei che include il video Teenage Lightning: anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una narrazione disattesa, pregna di suggestioni e di topoi derivanti da film o da generi (l’on the road, il filone giovanilistico). Non ci sono parole, ma solo un lungo incipit con tre ragazzi a bordo di un’automobile sportiva che attraversano un valico montuoso. Un prologo che potrebbe sfociare in un epilogo drammatico e che invece, beffardamente (o ermeticamente), prosegue prima con una ripresa aerea del paesaggio e poi con una breve coda: la più giovane del trio scende dall’auto da sola. Dove sono gli altri due? Si sono suicidati? O sono scomparsi nel nulla, magari risucchiati nel dream time come in Picnic at Hanging Rock?

Ma quello che potremmo definire l’orizzonte filmico nella ricerca di ZimmerFrei se da un lato è richiamato dal dispositivo visuale-narrativo della panoramica (sorta di ritorno alla purezza originaria del cinema come veduta), oppure da una diegesi spezzata e frustrante per lo spettatore (Teenage Lightning), dall’altro si materializza sotto forma di traccia acustica. Le architetture sonore possiedono un potere di evocazione anche narrativa che è impossibile qui sintetizzare, ma che diventano determinanti ancor più delle immagini per esempio in una folgorante opera quale Ghost Track, pronta ad assumere – come del resto altri lavori del collettivo – la duplice forma di video mono e pluricanale a seconda dei contesti. Sulla traccia di alcuni frammenti sonori desunti da film molto diversi tra loro, da Save Private Ryan di Spielberg a Heimat di Reitz, che insieme sembrano voler comporre un’antologia dei sentimenti, ZimmerFrei ha sovrapposto sequenze di immagini originali, girate probabilmente in una città nordeuropea, che contraddicono la narrazione sonora e rendono ancora più straniante la discrepanza tra audio e video. Si tratta appunto di “tracce fantasma”, riverberi dell’immaginario cinematografico che si manifesta psicanalisticamente come ritorno del rimosso.
C’è forse un unico momento di Ghost Track in cui il topos cinematografico si materializza anche a livello visivo, ed è quando al sonoro di Vertigo si accompagna l’immagine di una donna che si allontana di spalle in campo lungo sullo sfondo di una periferia urbana. Un’apparizione dichiaratamente hitchcockiana in una trama visiva dove – a parte l’apparizione di altre figure umane – predomina soprattutto l’architettura urbana, attraverso una serie di vedute spesso desertificate. Ghost Track è in fondo un lavoro sul vuoto, sullo svuotamento di campo e al tempo stesso su quello di senso, causato dallo scarto tra segno e suono: un caos acusmatico (non vediamo la fonte da cui scaturisce il sonoro sostituita da un’altra fonte) che impedisce qualsiasi possibilità di narrazione lineare.
Oppure/eppure è proprio da questo asincronismo che scatursicono infinite possibilità di senso, infinite storie, interrotte o solo accennate, tracce fantasma conservate in un infinito catalogo mediale della memoria.

La memoria della città (Milano) nei racconti dei suoi abitanti è al centro di un altro video di ZimmerFrei, Memoria Esterna, anch’esso difficile da definire per la mescolanza e sovrapposizione di documento reale e alto grado di elaborazione dell’immagine. In voice over uomini e donne propongono ricordi ripescati dal proprio archivio esistenziale: ricordi minimali o eventi drammatici, interiori, intimi o “storici”, riconducibili a un’epoca. L’oralità è sottolineata soprattutto dall’assenza. Nessuno dei portatori di storie compare in scena, ma le loro parole diventano una formidabile sceneggiatura, che consente a ZimmerFrei di costruire una complessa struttura visiva basata su un ricco montaggio delle attrazioni, intessuto di sequenze in bianco e nero mescolate a sequenze a colori, inquadrature fisse a riprese con camera a mano. Anche in Memoria Esterna la metropoli – e soprattutto il sentimento soggettivo che gli abitanti hanno di essa – diventa il fulcro della narrazione. Anche in Memoria Esterna c’è un forte rapporto con l’immaginario cinematografico, fatto di rapide suggestioni: come nel primo racconto del ragazzo rimasto a dormire alla stazione Centrale di Milano che avverte un congelamento spazio-temporale simile al 2001 di Kubrick. Un non-luogo urbano che ne richiama per associazione un altro, un non-luogo filmico.

Una delle intuizioni principali di ZimmerFrei è quella di fare cinema utilizzando puro materiale della realtà o immettendosi all’interno del flusso stesso dell’esistenza, senza neppure la necessità di interromperlo, come avviene nei panorami, ma inserendo nel reale (e nel suo meccanismo di scorrimento temporale) molteplici livelli di rappresentazione, continuamente in bilico tra fiction (fino alla stilizzazione performativa più estrema) e non fiction (il documentario, ma sempre totalmente ripensato come in LKN Confidencial), tra teatro e reportage. Così anche Ghost Track si basa su un’operazione similare: tranches de vie, siano esse vedute urbane o scene di interni, “rubate” o ricostruite, acquistano una nuova valenza e un’inedita forza drammaturgica, non appena vengono a contatto con le colonne sonore dei film, in un fatale cortocircuito in cui le immagini del quotidiano – più o meno inconsapevolmente – si riconfigurano secondo un regime finzionale. E l’associazione/separazione tra racconto orale ed esplorazione visiva di Memoria Esterna, conferma questa possibilità di creare cinema partendo da un materiale autentico e ricombinandolo in un gioco frammentario di rimandi.
L’indistinzione tra spettacolo e documento è uno dei tratti caratterizzanti questa fase di post-cinema che stiamo attraversando in un’era profondamente intermediale e il pregio maggiore di un collettivo di artisti come ZimmerFrei è di lavorare sul duplice crinale dell’arte contemporanea e del variegato universo audiovisivo, con rigore, consapevolezza del medium e la libertà creativa di uno sguardo incessantemente mobile.