Stefano Chiodi – Tema Celeste – gennaio 2005

Schermata 04-2457136 alle 14.23.50
Gilles Deleuze

ZimmerFrei. Panorama

Una giornata (folle). Alba-giorno-tramonto-notte. Un giro d’orizzonte (360 gradi). Tempo compresso – ventiquattr’ore in una manciata di minuti. E due tempi. Primo: tumultuoso, il ciclo irreversibile della luce e del buio, del vento, delle nuvole nel cielo e delle ombre che sussultano e filano via, come i corpi che le proiettano a terra, in un’irresistibile accelerazione che consuma letteralmente i gesti e li trasforma in uno sciame ondeggiante . Secondo: un tempo quasi come il nostro, ma precipitato dentro quel primo, in apparenza visivamente coerente: gesti banali – toccare, abbracciare, camminare, baciare, indicare. Con la sua sottile manipolazione delle unità aristoteliche di luogo e d’azione, Panorama, il nuovo lavoro del gruppo ZimmerFrei (Anna de Manincor, Anna Rispoli, Massimo Carozzi), è un film che consuma al centro di piazza del Popolo a Roma l’inverosimile unione di due temporalità, di due universi non comunicanti: come se dalla materia opaca fossero sorte immagini fantasmatiche misteriosamente sottratte alla legge temporale che trascina ogni cosa. Sdoppiando il proprio tempo, e mostrandocene la simultaneità, il film interroga e sfida la struttura della durata, il nesso fondamentale che dell’immagine cinematica costituisce in ultima analisi la garanzia: che ciò che vediamo accade (“è successo proprio lì”) nella realtà. Le immagini di Panorama – penso evidentemente a Deleuze e alla sua immagine-tempo – non rappresentano dunque un’azione che ha luogo nello spazio ma nel tempo.
E questo non appartiene allo spazio dei fenomeni, ma rappresenta una sfera immateriale, quella del pensiero e dell’immaginazione. Il tempo non è più mostrato come sequenza di intervalli sequenziali, come cronologia, e lo spettatore non osserva immagini che riecheggiano la propria esperienza, ma qualcosa di radicalmente differente, più simile a un processo puramente mentale. Per ZimmerFrei si tratta in altre parole di sfidare l’aspettativa più tenace per attraversare il confine tra necessità e possibilità: i corpi dei performer appaiono così sospesi in un presente dilatato, quasi fossero avvolti in una specie di sfera trasparente o se venissero da un altro ipotetico mondo. E quei loro gesti, incongrui o banali, acquistano così la dolorosa evidenza e l’intensità delle immagini della memoria, o di certe fotografie, che come meccanismi proustiani ci rammentano del nostro tempo che fugge, della fragilità delle cose umane, della morte che scende leggera.

Stefano Chiodi