La verticale sulla linea dell’orizzonte
di Anna de Manincor | ZimmerFrei 2011

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Agosto, esterno notte. Cammino nella città dove non si può fare altro che camminare: Venezia. Tanto si cammina, che per salutare un amico nemmeno ci si ferma, ci si saluta dal fondo di una calle e si continua a parlare fin quando si è a portata di voce, sempre senza fermarsi né voltarsi.
In questa città ci solo sono rumori di cose e di persone, i miei zoccoli si sentono risuonare anche dentro il buio delle case, sogni d’oro a passo d’uomo. Non sono una camminatrice professionista, cammino come fanno tutti, senza pensarci. Sembra però che il pensare e il camminare abbiano una loro consonanza speciale. Rebecca Solnit, l’autrice di Storia del camminare, sospetta che “la mente, come i piedi, possa lavorare alla velocità di circa tre miglia all’ora”. Se così è, allora la nostra vita si muove ben più rapidamente della velocità del pensiero. Gambe in spalla dunque, per attraversare le lande dove ci siamo inoltrati dobbiamo mettere le ali ai piedi! Spesso si cammina per fare ordine nei pensieri, inanellarli uno all’altro ed estrarne una mappa invece che pensarli tutti contemporaneamente perdendo l’orientamento. Quando ci alziamo dalla sedia in cui viviamo due terzi della vita recuperiamo la verticale e la mobilità. Camminando ritroviamo l’allineamento tra corpo, mente e mondo. L’orizzonte, la terra su cui camminiamo, è l’asse x, il nostro corpo è la verticale, l’asse y, e i pensieri viaggiano allo stesso ritmo dei passi sull’asse z, quello del tempo.
Arrivo in Campo San Polo, dove c’è l’arena del cinema estivo: nel film J. Depp & A. Jolie si aggirano per Venezia, chissà se anche l’Angelina adotta la tecnica dei sandali di sughero ai piedi e i tacchi nella borsa. Vedo una fettina di schermo spuntare dal tendone nero: l’inizio di The Tourist segue l’arrivo di un treno dall’alto: il convoglio attraversa il ponte della Libertà e penetra nella città d’acqua, la visione sale fino a comprendere il canale della Giudecca, la lingua del Lido, la laguna intera, l’Adriatico. E oltre sappiamo esserci tutta la penisola, lo stivale rovesciato e in discesa come lo dipingevano i primi turisti viaggiatori tedeschi quando varcavano le Alpi. (Da quando abbiamo assunto la visione in dolly, la panoramica dall’elicottero come forma del pensiero, metafora dell’astrazione? La geografia ha una sua narrativa e una sua epica. Pare che tutte le sceneggiature inizino o finiscano così, poi è solo il budget del film che determina se l’inquadratura verrà girata no).

Ho allungato il passo, cammino lungo la fondamenta che è il limite stesso tra la città e l’aperto della laguna, con l’ombra proiettata dai lampioni che mi segue in acqua. Venezia è tutta wireless, anche se mi sto muovendo senza nessuna intenzione il mio segnale persiste, il punto blu sulla mappa mi insegue, non si confonde. Controllo per l’ennesima volta la mia posizione e guardo una stella che si muove, uno dei satelliti che abbiamo mandato a vegliare su di noi e vigilare le nostre coscienze compulsive. La visione si stacca, parte il dolly: questa riva, questo ponte, questo campo, questa città, questa penisola visti improvvisamente da fuori, con occhi alieni: questa terra non è nostra, non è fatta per noi, la vedo senza scala umana, come una meravigliosa forma astratta ed esoterica che straripa di bellezza.
Ed ecco che realizzo un’altra cosa, un’evidenza finora senza nome: solo adesso abbiamo digerito, incarnato la visione di Galileo. La geografia è diventata per noi un oggetto, un fatto, non è più una rappresentazione, il pianeta è un nostro strumento di valutazione, di decisione, di programmazione quotidiana. Ho vissuto con un bambino che prima ancora di cominciare a giocare con la playstation giocava “a googlearth”, squadernando gli anfratti della terra, volando agli antipodi passando dallo Spazio, inventando storie, città e case che avremmo abitato, sopra montagne e in mezzo ai laghi. Il gioco finiva con lo scandaglio dei nostri dintorni, ci dovrà pur essere un lago da lucci che non abbiamo ancora trovato! E allora Street-View metro per metro, volo d’uccello in 3D e poi GPS in macchina, perché quella pozza d’acqua c’è veramente e dentro ci sono i pesci, anche se non abboccano. Si è realizzato il sogno Borges e l’incubo di Kublai Khan, che voleva una mappa così dettagliata da coprire il suo stesso regno, significandone la paralisi. Guardare la Terra da fuori è come vedere per la prima volta il cinematografo dei Lumière, l’arrivo del treno al La Ciotat. Gli spettatori del 1895 non hanno gridato per paura che il treno li investisse, non erano mica degli sprovveduti, ma tutti contemporaneamente hanno avuto un’epifania: riconoscono per la prima volta il movimento, qualcosa che hanno sempre saputo ma che non hanno mai visto staccato dal loro corpo, così come noi stiamo interiorizzando fisicamente, per la prima volta seriamente, il fatto che la terra è sferica ed è un corpo celeste che viaggia nello spazio.

da Doppiozero 07.10.2011

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