Montevaccino
di Anna de Manincor / ZimmerFrei 2012

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Sono salita a Montevaccino dopo molti anni per delle mie ragioni segrete, diciamo per sciogliere un incantesimo. Il paese è a mezzacosta sul Calisio, il monte detto anche Argentario. Rispetto alle montagne “serie” questo è un monticello di poco conto, ma è un luogo misterioso e inospitale, coperto da boschi irregolari, bucato da forre, grotte, miniere d’argento abbandonate da centinaia di anni e piccole cave. Io sono nata lì, concepita su un plaid verde rosso e nero in una qualche radura in mezzo al bosco.
Montevaccino sta alle spalle di Trento, in cima a una strada che non porta da nessun’altra parte. Se hai meno di 14 anni ci arrivi solo con il bus numero 10, quello dei “selvaggi” che andavano a scuola alle Missioni Africane (ora sede del quotidiano L’Adige), che ancora oggi termina le corse alle otto di sera. Trent’anni fa c’erano solo una ventina di vecchie case di pietra, rappezzate col cemento, la lamiera e l’“onduline”. Da Trento ci si va anche d’inverno per fare la passeggiata domenicale dell’ultimo minuto, quando si è troppo pigri o troppo presi per organizzare alcunché, sono le due e mezza e il sole sta già tramontando oltre la Paganella.
Ci porto la mia amica Flora, maestra di tango e di vita vissuta, per dimostrarle che anche a due passi da Trento c’è il bosco fitto, ovvero la montagna e basta. Superate le case nuove, alcune rivestite completamente in legno, una piccola serie di case a schiera, due o tre case-clima e attraversato il borghetto di Montevaccino di Sopra passando sotto gli androni delle vecchie case ristrutturate, ci avviamo per un sentiero che sale dritto in verticale verso il bosco. Contrariamente alla ritrosìa che caratterizza queste parti, tutti quelli che incrociamo ci parlano, andando ben oltre il rituale Salve-Salve. Due anziani dal passo svelto che vestono feltro verde e pile rosso, senza nessuna ragione si giustificano così: Sen chi che fen do pasi, prima che ‘l faga stròf. (Facciamo due passi prima che venga buio). Ne approfittiamo per domandare dove porta il sentiero. ‘Ndo che la vol. …ma ela no l’è pratica, l’è mejo che la varda i numeri su le piante e no la zuga a scondilèver o a maria orba en‘t el bosc. (Portano dove vuole, ma Lei non è esperta, è meglio che segua il numero dei sentieri segnati sulle piante e che non si metta a giocare a nascondino o a mosca cieca nel bosco). Ad ogni crocicchio ci sono cartelli di legno che indicano i posti più disparati: Lavis, Bolzano, Civezzano, Levico Terme, Padova. Scavalcando le montagne si arriva al mare, e si arriva anche in Germania.
Su una quercia c’è una casetta di legno, un capanno di caccia. Il richiamo è irresistibile: saliamo? La scala è di legno molto secco e scricchiola orribilmente. Dopo nemmeno un metro una voce ci apostrofa salendo dal nulla: Sacranòn! Diàol de na matelòta, no l’è mia en crossnòbol! Che no la me casca en’t el void! O la vol sbolognar qualcheduni? Che no la me vegna zo come un sac patòc! (Sacramento! Diavolo di una ragazzina, crede di essere un passero? Che non mi caschi nel vuoto! O forse vuole liberarsi di qualcosa/qualcuno? Che non mi caschi di sotto come un sacco di patate!) Mai contraddire le voci del bosco. Saliamo ancora e troviamo una radura, ci buttiamo bocconi sull’erba corta e secca di gelo e facciamo quel po’ di silenzio che fa vegnèr su el rafanàs dei destràni (fa salire i pensieri confusi dei ricordi – anzi, della nostalgia).

Gli amici dei miei genitori, i De Carli, hanno abitato per un periodo glorioso nel castello di Montevaccino di Sotto. Erano artisti e rivoluzionari, metà trentini e metà francesi. Il castello era nero, buio dentro, illuminato solo dal rosso dei cerchi di ghisa della fornasèla (cucina a legna), e da piccole lampade di vetro giallo e verde. C’era la stanza con il lettone e il telaio con i fili che scendevano da tutto il soffitto (dove la Katia tesseva gli arazzi), i quadri agitati di Mauro De Carli, le statue di legno e di bronzo del Paolo De Carli con la grande barba, la cucina della CriCri con il fuoco e la tazze tutte diverse. Mi mandavano a giocare con i loro figli nel cortile e nel bosco. Erano dei selvaggi. Erano fortissimi, coraggiosi e anche cattivi. Io però sapevo salire sugli alberi e non scendevo più. Una volta mi hanno fatto salire su un muretto alto e per scendere mi hanno fatto buttare nel cespuglio delle more. Una volta mi hanno chiuso nel pòlinar con le galline. Però mi hanno insegnato a fischiare e a pisciare oltre il fosso, in piedi, anche se sono femmina. (1982)

Un giorno sono tornata al castello col mio cane (noto anche come “il Vecchio Poeta”), la villa è disabitata e il cortile cinto dai merli è diroccato. Faccio il giro da sotto e salto dentro usando il muretto delle more. Salgo fino al secondo piano da dentro la torre che guarda verso valle, il pavimento di rovere è pericolante, è sfondato proprio al centro. Apro la porta che dava sulla sala del fratino, il tavolo lungo: la porta cigola orribilmente e… per la prima volta vedo un cane, il mio vecchissimo cane, che piglia uno spavento: si immobilizza col pelo ritto, in equilibrio sulle unghie, si trasforma in un fox-terrier dei cartoni animati e parte a ciòdo (schizza via come una freccia). Aveva visto un fantasma. (1992)

Tornando in paese, col buio quasi fatto, una donna scosta le tendine e ci guarda passare. Apre addirittura la porta. Addirittura ci parla: Le cognosso mi, a voialtre? Non si accontenta, ci saluta, ci fa gli auguri, ci invita a entrare e insiste perché saliamo la scaletta fino alla sua cucina. Mai e poi mai sono entrata in casa di una sconosciuta in tutti gli anni che ho vissuto in Trentino. Assunta si chiama, ha novant’anni. Forse si è confusa e ci ha scambiato per qualche parente di un compaesano, ma ammette che di tanto in tanto l’è bel anca far do ciàcole (ogni tanto una chiacchierata non guasta). Ci offre “acqua de la spina, cafè e anca ‘l vin. Ghe n’ho sempre chi na boza de quel bon, no per far la bàla, ma no se sa mai. Se le pasa de chi anca l’àn che ven le passa à saludàrme, se ghe son ancora. E se no: Gloria-Aeterna-Amen” (acqua del rubinetto, caffè e anche vino. Ne ho sempre qui una bottiglia di quello buono, non per ubriacarmi, ma non si sa mai. Se passano di qua anche il prossimo anno vengano a salutarmi, se ci sono ancora. E se no: Gloria Eterna Amen).

Missione compiuta, tutti i vecchi incantesimi sono sciolti e altri sono annodati. (2012)

da Doppiozero 21.03.2012