Multietnica, allargata, arcobaleno: dove c’è amore c’è famiglia – Sabina Minardi, L’Espresso, Febbraio 2020

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Rumori di stoviglie, porte che sbattono, acqua che scorre, pianti di bimbi, la centrifuga della lavatrice, tv accese, cani che abbaiano. Le famiglie sono tutte uguali, come i suoni che provengono dalle case, come il tempo che scandisce le giornate, e gli eventi della vita: nascite, morti, feste, incidenti, traslochi.
Prende la parola sulla scena la vita delle famiglie – per discutere, litigare, confessare, amare – in un gioco di rimandi e di corrispondenze, tra loro e con il pubblico. E mentre piccole narrazioni si trasfigurano in una mitologia del quotidiano, si compone il ritratto di gruppo di ciò che vuol dire essere famiglia oggi.

ZimmerFrei, collettivo bolognese che dal 2015 ha interrogato centinaia di famiglie in una quindicina di Paesi per un progetto di teatro-documentario intitolato “Family Affair”, arriva a Roma, al Teatro India. E coinvolgendo un quartiere, l’undicesimo municipio (dall’asse di viale Marconi a Trastevere, Testaccio, Portuense e un po’ di Magliana), entra nelle case, riporta alla luce storie, mappa le geografie affettive di nuclei familiari ad assetto variabile. E alla fine ne sceglie sei: la famiglia di Tommaso e Franco, genitori di Lia e Andrea; Gianni, Fiorella e quattro figli; Roberta ed Emanuele e cinque figli; Sofia e Claudio, ventenni con una bimba di due; Chiara con Javad e due piccoli; Sevla, madre di 9 figli e un lungo elenco di parenti che estende il nucleo familiare a una quarantina di persone.

Sono loro, con la potenza del racconto in prima persona, i protagonisti di uno spettacolo più autentico di qualunque libro di sociologia. Anche se i testi di riferimento i registi li trascinano con sé, spargendoli sul palcoscenico durante le prove, come numi tutelari: “La parentela: cos’è e cosa non è” di Marshall Sahlins e “La fatica di diventare grandi” di Aime Pietropolli Charmet, “Maschile e femminile” di Françoise Héritier e “Genitori come gli altri” di Anne Cadoret, “Nuove madri e nuovi padri” di Anna Laura Zanatta, “Coppie e famiglie” di Chiara Saraceno, “Le choix d’une vie sans enfant” di Charlotte Debest…

Ma quando il sipario si apre i libri spariscono, entra la vita vera, antropologia di carne e sangue, e parole che vibrano.

«Ma senza pretese scientifiche», precisa l’artista Massimo Carozzi, che cura il suono: «Non ci interessa neppure la dimensione psicologica: cerchiamo anzi di disinnescarla. Mantenere uno sguardo oggettivo è la nostra caratteristica. Ci mettiamo solo in ascolto, in un atteggiamento di empatia».
«Non è la vita segreta che cerchiamo, ma le storie: come le racconti, il gergo familiare, le diverse versioni dello stesso fatto», prosegue la regista Anna de Manincor: «Alle persone facciamo solo due domande: «Chi sono i componenti della tua famiglia», e la risposta può durare dieci secondi o un’ora; e «racconta un fatto che hai condiviso con qualcuno di famiglia». Parlano a lungo, tirano fuori scatole, collezioni. Lo spettacolo è nuovo ogni volta, perché non segue un classico meccanismo teatrale nel quale interpreti un ruolo e lo ripeti, ma si basa su dispositivi che attivano i pensieri a voce alta».

Cuore della performance sono i video, che precedono e che accompagnano la rappresentazione trasmettendo registrazioni fatte nel privato delle case. «Per neutralizzare le storie mettiamo in atto forme di mediazione: le condensiamo, le riscriviamo come asciutti verbali. E le facciamo raccontare da un altro. Il protagonista ascolta ad occhi chiusi, perché nel frattempo sta pensando a ciò che non si può dire», aggiunge Carozzi.
«Le famiglie esprimono bisogni e desideri comuni. Ma assomigliano più a cespugli di relazioni che a nuclei compatti. Alcune hanno avuto vicende rocambolesche, hanno cambiato Paese, famiglie dove ognuno si è costruito un ruolo con fatica, con due padri, o tre madri e due figlie, famiglie incrociate, a stella, ma tutte con grande consapevolezza del loro legame», continua la regista: «Il problema, semmai, è nelle parole che mancano: non ci sono i termini per chiamare alcune figure che pure hanno un ruolo: il terzo genitore, generazioni lontane che convivono. O famiglie con un genitore solo, non per forza single. Ci sono poi le famiglie d’elezione, persone che vivono insieme, ma senza legami di sangue».

“Planimetria di una famiglia felice” titola un nuovo romanzo, firmato da Lia Piano (Bompiani): non c’è. Ci sono famiglie nuove, che costruiscono una società diversa. E “Family Affair”, che si voglia o no, mette in moto riflessioni, costringe a decidere da che parte stare: diventa politico.

«Sì, certo», concorda il giornalista Tommaso Giartosio: «Io ho partecipato perché mi incuriosiva vedere come si sviluppa uno spettacolo da un’idea artistica, ma su una base materiale imprevedibile. La nostra è una famiglia arcobaleno, espressione troppo zuccherosa ma preferibile a famiglia omogenitoriale. La soluzione al lessico che non c’è si trova solo raccontando le storie: le nostre, ma anche quelle di famiglie ricostituite, o nate dalla migrazione. Tutte diventano fili di un unico tappeto».
«Sono qua perché volevo lasciare traccia dei sacrifici che ho fatto. E volevo farlo io, con la mia voce e la mia presenza», dice Selva, che è nata a Sarajevo, è venuta in Italia durante la guerra, ha abitato in un campo rom finché non è nata Priscilla, malata. E allora per proteggerla ha occupato un garage abbandonato vicino a Ponte Marconi: sul palco elenca, tra inevitabili smemoratezze, i nomi di figli, nipoti, nuore, cognati che vivono con lei.
E c’è Chiara, psicologa, con Javad, afghano di origine hazara, fuggito dalla valle di Bamiyan e rifugiato politico: racconta di quando fu arrestata in Iran, aveva il collo scoperto: «Siamo famiglie non tradizionali, ma siamo qua per mostrare la nostra normalità: quanto anche ciò che potrebbe dividerci – un’altra religione, altri cibi, altre abitudini – siano una ricchezza». E Claudio e Sofia, giovanissimi genitori di Selene: «Ho fatto la versione di greco il giorno prima di partorire», dice lei.

In questo inventario di famiglie diverse alle prese con vicende comuni – il rapporto coi figli, i genitori che invecchiano, i compagni da un’altra parte, il tempo che non basta mai – col proprio lessico famigliare, ci si ritrova a casa. Senza sigle, musiche stucchevoli, né la tentazione di tirare le conclusioni. Quelle sì da far crollare l’architettura fragile e complessa delle nostre famiglie.

Prodotto dal Teatro di Roma, “Family Affair” è in scena il 29 febbraio e il primo marzo.

Sabina Minardi, L’Espresso, 13 febbraio 2020
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