Congo Blue

lume foto

A causa dell’immensa quantità di materiale prodotto quotidianamente da un’enorme città come Città del Messico, è molto difficile giustificare l’atto di aggiungere un altro pezzo di materia a quell’ambiente già saturo. La mia reazione è stata quella di inserire una storia nella città piuttosto che un oggetto. Se la storia è quella giusta, se colpisce un nervo, può propagarsi come una diceria. Se lo script soddisfa le aspettative e affronta le ansie di quella società in quel preciso momento e luogo, potrebbe diventare una storia che sopravvive all’evento stesso. In quel momento, ha il potenziale per diventare una leggenda o un mito urbano.
dall’intervista a Francis Alÿs a proposito dell’azione When Faith Moves Mountains (spostamento a colpi di pala di una duna di sabbia in Perù)

Anna de Manincor per il catalogo del progetto Lume, piazza de Gasperi, Padova
marzo-aprile 2019
a cura di Stefania Schiavon | Progetto Giovani Padova

Un lampeggiante solitario sotto gli alberi. Dall’altro lato di piazza De Gasperi, sotto i portici, uno studio notarile con lampeggianti arancio e blu che si alternano occhieggiando dalle tende a listelli. Sull’altro lato della piazza c’è una sala conferenze contenente un’esposizione di ceramiche e dipinti affogati nella foschia magenta e blu di una discoteca vuota. Poi c’è uno studio con luce fredda sotto e un gran faro caldo nel soppalco, c’è una violenta scarica di luce bianca intermittente al secondo piano di un negozio chiuso, una vetrina oscurata da carta che riflette l’ombra di una scala a chiocciola ed espositori vuoti, c’è una luce livida dentro a cristalli in vendita, un foro che sfiata luce dal pavimento, un ufficio giallo-fastidio, anzi no, cambia con un effetto-notte di luna piena, c’è un cantiere bicolore in cui ogni giorno gli oggetti cambiano posizione, c’è una baraonda di schedari, armadi, telefoni, cassettiere, lampade, tende, ventilatori e neon lasciati accesi a flickerare fino alla fine dei tempi – qualcuno dev’essersela svignata alla bell’e meglio col malloppo. E quelle due file di neon del negozio all’asta, ci sono sempre state? Il dégradé di blu sembra moltiplicare le distanze: dal ghiaccio al turchese al verde laguna al blu cina. Anzi Tokyo Blue 071 e Congo Blue 181, che da quanto è blu pare viola. O nero, come il fiume Congo in una notte senza luna.

Lume è un progetto site specific e time specific. Riguardandolo ora possiamo dire anche light specific. Partire con undici artisti singoli e arrivare con un gruppo non è scontato. Passare dall’esplorazione al vero e proprio insediamento – con la sponda del progetto a medio termine MAC – è tanta strada.
Si era partiti con l’idea di un arco di tre mesi e sono diventati cinque. Si è parlato subito di luce, ma anche di suono, di odore, di dimensione tattile e di aspetti relazionali.
I passi successivi sono stati l’identificazione degli attori in campo e degli interlocutori, lo scambio grumoso di pensieri, questioni e intenti creativi, la ricerca di immagini, articoli, notizie e racconti che riguardano piazza De Gasperi, la definizione del perimetro di intervento (superficie, sottosuolo, altezze) e il suo ridimensionamento, la discussione continua dentro al gruppo e con tutto il contesto intorno.
Per la coltura di un terreno già stratificato e molto raccontato è necessario un esercizio forzato di decondizionamento. Si è deciso di bandire la parola degrado. Usata con troppa frequenza e facilità non ha più significato e si limita a svilire chi abita o chi si muove in quegli spazi. Si è anche deciso di non parlare di negozi “etnici” ma di indirizzarsi ogni volta specificamente ai differenti esercizi: la ex-macelleria halal, il negozio di casalinghi italo-cinese, Chaabi Bank ha sede in Marocco, il market è bengalese (o bengalino?), il venditore di dischi non ne vuol sapere nulla di cosa faremo.
Prendersi carico di un progetto nello spazio pubblico, dialogare con chi lo abita, lo usa o è già attivo con altri progetti non vuol dire sostituirsi ad altre competenze, non vuol dire domesticare quel luogo una volta di più, ricondurlo alla conformità per riconsegnarlo a chi ne fa commercio con un valore aggiunto, ma renderlo prezioso per i nostri sensi immateriali, rendere noi stessi domestici, diventare parte di quel luogo e delle sue negoziazioni, seppure per un tempo breve.
Gli interventi temporanei sono a doppio taglio, creano aspettativa, a volte lasciano addirittura una certa nostalgia, ma spesso passano come folata di vento, non incidono – o peggio, tradiscono le promesse. Correre questi rischi, anche quello di strafare, di essere fraintesi, rifiutati, sovrascritti, manovrati, fa il thrilling della cosa. Si fa una fatica cane, di solito.
Una cosa che ho sperimentato personalmente nel lavorare nello spazio pubblico o sui beni comuni è che il lavoro non solo diventa automaticamente interattivo, ma ha soprattutto bisogno di essere iterativo. Il progetto si scrive e si riscrive più volte, ad ogni giro si rifà il percorso più volte, si monta, si smonta e si rimonta. È un grande dispendio di energie e di tempo – ognuno poi trova le sue strategie di minor consumo – ma è indispensabile la sovraproduzione per poi essere in grado di far piazza pulita, per restare in osmosi con la realtà in cui abitiamo. Per chiudersi in studio o dentro al proprio cloud ci sarà sempre modo.
È emersa subito la volontà di lavorare sulla percezione, stranamente tutti erano già consapevoli che ne sarebbe uscito un lavoro collettivo o non ne sarebbe uscito nulla. L’esposizione di opere personali è stata esclusa dal primo giorno. Questo non vuol dire che a più riprese ognuno non abbia sentito l’esigenza di tornare al proprio linguaggio più personale, di lavorare con strumenti conosciuti. Se fosse per me lo farei più radicale / Vagonate di luce accecante, la notte messa a giorno! / Anzi, un’esplosione / Io non voglio fare lo sbirro / Più d’impatto, più bestia / Più Speranza, Bellezza, Magia (per cortesia) / Bisognerebbe fare uno studio storico e iconografico preliminare…

Dunque si è deciso per una serie di installazioni luminose (non sculture luminose, non scenografie di luce e niente a che vedere con i sempre citati video-mapping). La luce è stata usata come strumento per entrare in spazi vuoti, in disuso o in corso di trasformazione e lì dentro evocare altre visioni o trasfigurare quello che, solo temporaneamente, è l’esistente.
Gli apporti iniziali della curatrice Martina Angelotti sono venuti dall’esperienza che abbiamo condiviso nel progetto ON, in dieci anni di realizzazione di progetti di artisti internazionali in spazi pubblici di Bologna e Genova e da uno scambio di esempi che sono stati d’ispirazione, riflessione o monito. Grande presa sui partecipanti ha avuto il lavoro di Giorgio Andreotta Calò, seguito produttivamente da Martina fin dai suoi esordi (Monumento ai caduti, 2009, incendio sul tetto del Comune di Bologna e rievocazione sonora degli abitanti e lavoratori di quel lotto prima della costruzione dell’edificio; un altro incendio pirotecnico e i suoi diversi esiti al Teatro Margherita di Bari), poi si è parlato di Luca Vitone, Aldo Giannotti, ZimmerFrei, Nikola Uzunovski, Ludovica Carbotta, Adelita Husni-Bey (tra gli artisti di ON), ma anche di Omer Fast, Francis Alÿs, Lara Favaretto, Maria Lai, Adrian Piper, Laure Prouvost, Rirkrit Tiravanija, Mona Hatoum…

Per fare solo un cenno alle cose pazze che sono state immaginate eccone una lista:
cabine sdraiate, capsule del tempo, portali, cripte nel sottosuolo/piazze in altitudine/falsi articoli sul giornale (ritrovato lingotto d’oro)/una macchina che gira, piena di torce/luci rosse (allarme mobile)/uno spazio dentro uno spazio/grate come casse sonore che emanano suono da sotto/parchimetro-juke box con Gigi D’Alessio e trap marocchina/fili da stendere con carrucole tra un condominio e l’altro/falò/falò e odore di carne bruciata/fumo da sotto/odore di brioche da sotto/tirare su lo sguardo/qualcosa di magico: neve da un palazzo/Gigi d’Alessio & cocaina/sala da tè autogestita/salotto asiatico/fuochi fatui/luce-buio alternati fino a sfiorare l’epilessia/coni di luce dal basso dei lucernai/manto erboso sconnesso/vetrine come lanterne magiche/accentuazione della paura/innesco speranza/luci calde diventano luci fredde e viceversa/un mare di luce blu (deterrente tossici)/illuminazione a giorno di notte/sirena-rituale ripetuto/gioco di specchi che ridisegna lo spazio/filo conduttore delle vetrine, come se fosse una striscia di negativo sviluppato, un nastro in cui ogni quadrante…

Con lo sprone delle curatrici di Progetto Giovani si sono formati dei gruppi, non per competenza ma per assunzione di compiti diversi: la mappatura degli spazi e delle loro condizioni tecniche, l’ideazione grafica e la comunicazione, la ricerca di materiali e i preventivi d’acquisto o noleggio. C’è chi è diventato l’interlocutore principale dell’architetto Burroni e dei suoi mille progetti in corso e in preparazione, di stanza al civico 7 e 13 di piazza De Gasperi, chi ha tenuto il contatto con il comitato dei residenti, chi con gli altri condòmini, condomìni. Nel frattempo Progetto Giovani si è occupato della parte essenziale e ineludibile della messa in condizioni: rapporti istituzionali, allacci elettrici temporanei, comunicazione stampa e molto altro. Gli artisti di Lume si sono trovati a operare in condizioni davvero rare e speciali, pieni di limiti ma in piena libertà (un fatto davvero poco frequente in Italia, che spero non smettano di pretendere sempre in futuro).

I tempi hanno un po’ languito a causa degli incontri a singhiozzo, ma dopo il secondo mese le cose hanno cominciato a ingranare. Contemporaneamente ha cominciato a propagarsi un gergo interno: la zolla, i portali, il “girofaro” (le gyrophare, la sirena luminosa rotante, una delle mie parole preferite in francese), Marilyn, le guardie, tende-viola, il barber. Poi succede che alcune frasi diventano dei refrain che punteggiano il lavoro: Le chiavi chi le ha? / Schèrsitu! / Hai sentito Burroni? / Va beh, decidete voi / Fatemi fare qualcosa con le mani e io sono contenta / Ma non va! Non funziona niente! / Ragazzi sono a vostra disposizione.

Alcuni rudimenti di illuminotecnica ed esempi pratici di luce usata nel cinema, in teatro, negli spazi pubblici, di lavoro o domestici, sono stati trasmessi da Davide Sorlini, direttore tecnico di ON a Bologna: factotum, scenografo, regista, tecnico autocratico, inventore, bricoleur, promotore di soluzioni impensate. Al momento della produzione esecutiva arriva Bull (alias Massimiliano Agostini), light designer e tecnico elettricista, e impone il suo senso pratico senza sostituirsi nella soluzione dei problemi o invenzione di alternative. Gli artisti sono riconsegnati alle loro responsabilità: fare questo intervento per ottenere cosa? Funzionerà? Durerà? Mancano le competenze? In qualche modo bisognerà procurarsele.

Poi un giorno arrivo da Bologna, a montaggio già avviato, e trovo Annalisa con le labbra completamente screpolate dalla polvere, dal freddo e dalla tensione, Cristina che avvita i mammut e assembla prese e spine, Fabio con un trapano in mano e una tenda di fili oro e verdi sotto braccio, Niccolò che apre un tombino e Matteo che scava un buco nella terra con la pala, Elisa 1 in cima a una scala pericolosamente verticale, Elisa 2 che parla con due persone dallo stesso citofono, Nicolas assente da ore in missione sotto copertura, Lisa in collegamento Skype da Berlino con sua nonna in piazza De Gasperi. Ecco, quando succedono queste cose capisco che stiamo andando in qualche posto che non era dato all’orizzonte.

Gli ambienti pieni e vuoti delle vetrine utilizzate da Lume sono il setting di un’azione possibile, una visione inquadrata, una finestra di tempo, un futuro non ancora in vista.
Io sarò sicuramente condizionata dal mio immaginario cinematografico, tanto che ho sempre lavorato nelle arti visive con ZimmerFrei pensando di fare cinema, ma fuori da un negozio chiuso, quello soprannominato “tende viola”, di cui non è mai stata rintracciata la proprietà, ci siamo trovati a nominare gli stessi vecchi film di Lynch, i primi di Lars von Trier, ma anche le serie Stranger Things e 13.

Questa installazione estensiva potrebbe risultare una cosa che c’entra pochissimo con i percorsi specifici di ognuno degli artisti, ma oltre che un’esperienza condivisa Lume è un’escursione nella relazione con la città abitata, in cui ci si domanda che fare degli spazi condivisi, quale sia il luogo dell’arte, quali sono i margini d’azione, cosa diavolo si chiede alla cultura che non si chiede alla sociologia, quali sono le questioni mal poste e inevase dalla politica, le vecchie storie che vengono rimpallate dall’uno all’altro attore del discorso pubblico… Ci si domanda con ragione cosa sia un artista, cosa faccia, quali siano le competenze che deve sviluppare, come debba campare e per cosa si deve far rispettare. Ce lo si domanda di fronte alla pulsantiera di un citofono, in attesa al telefono con un risponditore automatico, il venerdì sera alle undici passate, la domenica mattina alle otto, nel surfing tra Amazon e Alibaba, di fronte alle schede prodotto di trasformatori da 12 e da 24 volt mai visti prima.

Forse qualcuno si aspettava di essere condotto per mano in un percorso preparato, ma poi succede che le cose prendono comunque un’altra piega, non sono in grado di fornire un format da ripercorrere, le cose nello spazio pubblico si fanno sempre per la prima volta, una sola volta sempre diversa. Si fa una fatica fisica che è data dallo spazio non dedicato, dal contesto non omogeneo, dal momento sempre complicato, dalle trame pregresse e dalle conseguenze difficilmente prevedibili. Non ci sono protocolli, ma ci sono alcune buone pratiche che possono ispirare e cose solo immaginate che sarebbe bello fossero possibili proprio qui, proprio noi potremmo farle.