CITTÀ NUDA

Tomorrow is The Question 12
car accident
Brighton Beach
Marseille
ZimmerFrei Long Island City rooftop - ph Matteo Mezzadri

dal libretto n.6 pubblicato da CLER, via Padova 27, Milano, in occasione della mostra CITTÀ NUDA
15 marzo – 20 aprile 2019
a cura di Antonio Rovaldi


(Ah, but remember that the city is a funny place)

 Antonio Rovaldi: Cari Zimmer, ogni volta che vengo a Bologna piove.
Ieri sera, dopo aver riletto il testo di Stefano Chiodi nel vostro catalogo Campo Largo (La passione dell’apparenza, MAMbo 2011), ho ripreso in mano Il cinema e l’arte del montaggio – Conversazioni con Walter Murch di Michel Ondaatje (Garzanti 2003) e, leggendo la postilla di apertura, vi ho pensato entrambi: “Il montaggio cinematografico è un’opera meravigliosa e arcana, come quella del mosaico. Mi piace guardare i montatori al lavoro, ma a loro non piace essere guardati.”, scrive Donald E. Westlake.

Anna de Manincor: Il montaggio è un lavoro che non si fa guardare. Lasciate stare i montatori, non parlategli, non fategli domande. Piuttosto raccontategli delle storie. Il momento peggiore è l’inizio, quando è tutto ancora informe. Proprio il momento in cui siamo adesso con Saga#1, il primo episodio del nuovo documentario. L’inizio è un momento terribile, sembra non iniziare mai. È come un cantiere in cui bisogna smottare tutto il terreno, scavare alla cieca dei tunnel d’entrata e di uscita, e si scopre che i disegni non tornano. E poi, quando è tutto ridotto a un pantano puntellato di impalcature, succede che in quattro e quattr’otto si tira su una maquette, una casetta che ci entrano a stento due bambini, e quello è il film. E tra tre giorni bisogna esportare.

Antonio: Partiamo dalla fine e non dall’inizio, quando il materiale visivo e sonoro di un’installazione video o di un documentario deve essere montato, il momento in cui un suono diventa parte di un’immagine, e viceversa. Come avviene per voi? Ognuno di voi lavora in quella porzione di studio che nel vostro spazio bolognese di via Azzo Gardino 10 è così ben definita: la stanza dove monta Anna e la stanza dove monta Massimo – le anatre imbalsamate vi guardano dall’alto delle librerie in uno spazio neutro, prima di levarsi in volo.

Anna: La combinazione Anna/Anna/Massimo era fatta di improvvisi brain storming in forma di camera-car. Parlare dei lavori durante i lunghi viaggi in macchina ci veniva bene. Adesso si prendono troppi aerei… La combinazione de Manincor/Carozzi è mutismo, testa bassa e rari momenti di telepatia. Poche parole al giorno tra il Mercato delle Erbe e il caffè in piedi alla torrefazione. Io lavoro al montaggio nei posti più diversi, a casa di Nicola, in Azzo Gardino, in campagna, portandomi sempre dietro tutto nel trolley. Massimo ha trasformato una stanza di casa sua in studio audio, perché lavora meglio di notte quando Ada dorme. Però per il nuovo film torneremo a lavorare fianco a fianco nella stanza delle anatre, il montaggio del suono non viene fatto solo alla fine, ha bisogno di più fasi durante l’edizione.

Antonio: Eravamo a New York insieme nel 2009 in residenza agli International Studios and Curatorial Program di Brooklyn e un giorno siamo andati a camminare lungo il Riegelmann Boardwalk davanti all’oceano – non prima di aver mangiato degli indigeribili russian verenoki lungo Brighton Beach Avenue. C’era una luce gialla, tu Anna scattasti molte fotografie mentre Massimo registrava dei suoni – la Rispoli vi aveva raggiunto da pochi giorni da Bruxelles. L’anno scorso andavo spesso a Coney Island a fare fotografie e registrare suoni al Calvert Vaud Park – lo Zoom consigliatomi da Massimo e poi acquistato da B&H funziona bene – e un giorno, dentro una rosticceria russa che vendeva involtini da ingerire con litrate di vodka, ho registrato la voce di Toto Cotugno che cantava Un’estate con te. Pare che i russi, per Cotugno, perdano le staffe.
Ricordo che Massimo aveva portato dall’Italia un piccolo giradischi e altri trabiccoli sonori: sembravate delle spie dentro il vostro studio affacciato su Metropolitan Avenue.
Quando vi raggiunsi da Monitor a Roma per la vostra personale Tomorrow is the question (2010) restai felicemente sorpreso di rivedere una porzione della spiaggia di Coney Island sotto forma di singole fotografie montate su tavole di legno e affiancate a ricreare una spiaggia stesa lungo il perimetro della galleria. Se poi avvicinavi un occhio a un buco in un muro, decisamente in disparte rispetto al resto della mostra, vedevi il becco di un uccello e copertine di dischi…

Massimo: Dietro quel buco avevamo messo una serie di oggetti d’affezione, dischi di Coltrane, Coleman, Mingus, un’edizione americana di A Scanner Darkly di P.K. Dick trovata a Porta Portese, qualche numero di “Metropoli”, la rivista dell’Autonomia romana che uscì per un breve periodo sul finire degli anni ‘70, gli uccelli tassidermizzati. Da quel buco si poteva, per così dire, spiare il nostro immaginario, o una parte di esso.

Anna: Quegli scatti a Coney Island sono una stati una visione molto precisa, durata pochi istanti. Una famiglia errante sparpagliata intorno a noi sulla spiaggia. L’universo parallelo degli ebrei Lubavitch, registrati sotto un altro tempo. Un’immagine da sola non potrà mai riassumere tutta la distanza di noi che guardiamo loro, loro che vedono noi, noi che crediamo di vedere qualcosa in loro, loro che sono come noi ma non ci guardano… Tu ed io Antonio abbiamo una familiarità diversa con la fotografia, ma mi sembra che nessuno di noi si affidi all’immagine iconica, quella che troneggia e si dà ragione da sola. Le immagini stanno sempre con altre immagini, le mie arrivano a mazzi, a sequenze. Le tue si depositano in pacchi, entrano le une nelle altre, si rovesciano sui pavimenti, si spostano e parlano tra di loro, a voce bassa.

Massimo: Sempre su Coney Island: A dicembre quell’anno, mi vennero a trovare Emidio Clementi, sua moglie Sara e Nina, la loro figlia che allora aveva solo un anno e non camminava ancora. In una giornata tersa e luminosa andammo a fare una passeggiata lungo il boardwalk che porta da Coney Island a Brighton Beach.
C’era un forte vento che ululava facendo risuonare la Wonderwheel e il Cyclone, che all’epoca erano chiusi e sembravano abbandonati. Provai a registrare quel suono, ma non ci riuscii. Alla fine di quella giornata tornammo a Manhattan e li portai alla Dreamhouse di La Monte Young in Church street dove tutti e quattro, stremati, ci addormentammo sulla moquette bianca. Quella giornata Mimì la trasformò in una canzone, una delle più belle dei Massimo Volume, un altro modo di fermare il tempo.

Non fidarti dei fantasmi del ‘900
L’estate non tornerà più da queste parti,
Con i più grandi mangiatori di hot dog di tutti i tempi
Che sorridono sazi agli angoli delle strade
Lo senti questo suono?
È il lamento del tempo?
O una nota rubata nella casa del sogno?
Restiamo ancora un po’
Camminiamo
Tanto la vita è solo a una fermata da qui
Basta una moneta per raggiungerla.

Antonio: Fotografie. Una bandiera rossa mossa dal vento. Oceano. Tornare nello stesso luogo più volte. Camminare sopra le assi di legno di Riegelmann. Guardare la gente che gioca a scacchi su tavoli di cemento. Le casse audio trascinate come trolley. Musica soul sparata e odore di Nathan’s Famous. Totonno’s Pizzeria Napoletana. Pizza on the run. Ocean View Cafe. Cafe At Your Mother-in-Low. Starbucks. Skovorodka. Dunkin’Donuts. Tacos El Rey. Tatiana.

Massimo: Di quel periodo ricordo il privilegio di poter uscire ogni mattina senza un piano, di imboccare una delle linee ortogonali che compongono la griglia della città e camminare, blocco dopo blocco, semplicemente registrando immagini e suoni nella mia memoria piuttosto che su un supporto. Di quel girovagare mi è rimasto un approccio, un modo di esplorare il territorio che continuo a ripropormi quando mi trovo in un ambiente urbano. Si può dire che a New York in quei mesi ho imparato a camminare.

Anna: Negli ultimi sei mesi abbiamo girato a Bologna, la nostra città adottiva. Trovo la stessa difficoltà che filmare New York, per ragioni opposte. Bologna è così familiare che mi risulta quasi invisibile, devo andare oltre i viali per cominciare a vedere qualcosa. New York ha troppi segni, troppa pressione, talmente tante facce da far commuovere, troppe vite di cui si perdono le tracce di provenienza. Come te abbiamo quella passione di guardare la gente per strada, stare nei posti fino a diventare parte del mobilio. Ti ricordi la storia che ti ho raccontato di Etienne Boulanger? L’artista francese che stava all’ISCP quando sono arrivata. È morto la sera stessa in cui io sono entrata per la prima volta nello studio. Non avevo ancora casa e ci ho passato la notte, contravvenendo alle regole della residenza. Ad Etienne si è fermato il cuore mentre attraversava in bici il ponte di Williamsburg. Sareste potuti diventare amici, oppure vi sareste odiati per troppa affinità sotto diverso segno. Quello che faceva Etienne Boulanger è misurare la città col corpo, entrare negli interstizi vuoti, abitare nelle impalcature, dormire negli anfratti, dentro i divisori dei pannelli pubblicitari. Ambientarsi a NYC non è semplice, nemmeno dopo anni, può diventare l’unica missione di un’intera vita. Fotografare NYC per me è una causa persa, meglio guardare i dettagli e ricordare con la memoria periferica. Tu ci sei riuscito dopo anni che solchi la città a grandi falcate e la circumnavighi a piedi palmo a palmo.

Massimo: Ma i camera-car che abbiamo girato a Gowanus dove sono finiti Anna? Ti ricordi quel giugno in cui pioveva ogni giorno?

Anna: Quel girato l’abbiamo perso tutto. Ho sovrascritto la cassetta minidv. Di quel giorno è rimasta solo l’alba in cui abbiamo tamponato un truck e abbiamo aspettato la polizia per tutta la mattina bevendo caffè liofilizzato. Quel film non l’abbiamo mai finito e mai montato. Non riuscivamo nemmeno a scriverlo, avevamo aperto troppe direzioni. Ho riletto adesso il piano di lavorazione del film di New York e c’è una lunga lista: presagio 1 – il cane attaccato dal corvo, barbecue rituale (ti ricordi il tableaux vivant all’imbrunire nel giardino della casa prestataci da Lotte e Till di South Oxford Street? C’era anche Rä), rogo o fogheraccia, Antonio riparte per l’Europa e lascia la casa di Lorimer, il quartiere di sole bambine Satmar in Wallabout Street, il sacrificio della gallina della domenica a casa del vecchio Robert Storr a Carroll Gardens, presagio 2 – il predicatore ubriaco nel backyard del Saint Nick’s a Harlem, predizione del futuro collettivo nel campo da handball allagato di Gowanus, il bambino muto dietro il bancone di Freddy’s Deli, lo sguardo del bassotto nella vetrina delle mozzarelle su Metropolitan avenue, cantiere con gettata di fondamenta sotto il ponte verso il New Jersey, scavi notturni da sito archeologico, delimitare sito fondazione con scotch giallo CAUTION, bagnini sui trespoli arancio davanti alle onde grigie di Rockaway, sparare razzi di posizione a Brighton Beach – segnali in Atlantico verso l’Europa (filmare dal largo), il maestoso mall dei rifiuti di Staten Island, meccanici messicani dormono nel garage vulcanizadora dietro l’ISCP, la veglia sul tetto di Long Island City, cerbiatti sulla strada lungo la riva di Babylon, arrivo a Montauk sotto la pioggia battente. Non c’erano personaggi, a parte gli italo-americani che guardavano fisso in macchina senza parlare, solo una serie di piani sequenza, lunghi totali con noi di schiena e il presentimento di dover rifondare, trovare un terreno dove dimorare e partecipare alla storia collettiva. La città però non era destino che fosse Brooklyn, ma Bruxelles, Bologna (solo città con la B…). Adesso siamo noi i responsabili, non possiamo dare la colpa a nessuno. Non più “what if”, ma “what else”. Documentario ed epica. L’abbiamo fatto dopo, con l’epos domestico delle case abitate ma vuote in Domestic Exiles e i volti eyes wide shut di Family Affair, con il western nell’isola olandese degli allevatori di Angus (Steadfast on our sand, primo titolo An Island), con il villaggio cyber-punk di Mutonia, fondato pensando a un futuro post-industriale che non si è avverato (Hometown|Mutonia, primo titolo Il Campo), con il documentario ambientato nel futuro della città sott’acqua Chalon-sur-Saône (primo e unico titolo La ville engloutie) e infine con la cattedrale sommersa dei rivelatori di particelle del CERN (Almost Nothing).

Massimo: Il tetto della casa nel Queens dove andammo a filmare l’alba, prima del tamponamento a Williamsburg, è anche il tetto della casa di un certo Joseph Coletti, che ha dedicato la sua vita a costruire un memoriale domestico sul naufragio del Titanic.

Antonio: Con Michael Höpfner camminammo da Wall Street fino ad Inwood park e titolammo il video che documenta la nostra camminata sorda e cieca Shorakapok (2010). Ci abbiamo messo circa otto ore a percorrere tutta la Broadway a piedi, da Wall Street fino alla fine di Manhattan: The Place Between two Edges, stando agli indiani lepote. Il St. Nick’s Jazz Pub al 773 di Saint Nicholas Street ha chiuso diversi anni fa, sulla homepage del sito web compare la scritta: sorry we are closed, pardon our dust, renovations in progress. Anche il negozio italoamericano che vendeva mozzarelle su Metropolitan Ave non esiste più – ha lasciato il posto a un dunkin’donuts – mentre invece resiste la pasticceria dei Fortunato Brothers (since 1976) all’angolo tra Manhattan Ave e Devoe Street. Questa la lista dei dolci:
Fruit Tarts / Strawberry Fruit Tarts / Cannoli / African Cannoli / Napoleon / Blueberry Napoleon / Eclair / Eclair Strawberry / Eclair Choc. Shaving / Cream Puff / Lulu / Sfogliatella / Pasticciotti / Deliziosa / Cornetto / Baba Rum / Baba Rum w/Cream / Choc. Covered Strawberries / Fancy Cream Puff / Zuppette / Frola / Swan / Lobster Tail / Apple, Blueberry, Cherry Turnovers

…Then you start thinking again
’bout all those things that you’ve done
And who it was and what it was
and all the different things
you made every different scene

Ah, but remember that the city is a funny place
Something like a circus or a sewer…

(Coney Island Baby, Lou Reed, 1976)

Alla pagina 31 del vostro catalogo Campo Largo c’è un afroamericano vestito con un’enorme felpa nera col cappuccio che gli copre il volto. E’ seduto dentro una vagone della subway – linea 1, da o verso Harlem – sta dormendo con la testa piegata e una falce di plastica da cavaliere della notte appoggiata al suo petto. Do not lean on door.

Anna: The name of the game is Death. È il titolo della foto.

Massimo: la cosa che mi piace di quella foto è che anche la morte può addormentarsi cullata dal movimento del treno. Le palpebre si fanno pesanti, il mento crolla sul collo e la Morte si addormenta.

Ci siamo nutriti molto di cinema e quello che produciamo è immaginario cinematografico, ma quello che facciamo non è cinema”. ZimmeFrei, da una conversazione con Francesco Tenaglia, dal catalogo Campo Largo, pag. 180, MAMbo 2011.

Antonio: Quello che fate quando non fate cinema che cosa è?

Anna: Mi sa che abbiamo fatto sempre solo cinema.

Walter Murch: In realtà molti dei montatori dei primi film – dai tempi del muto – erano donne. Era considerata un’attività femminile, un po’ come il cucito. Si cucivano insieme i pezzi di un film. E per certi versi il montaggio assomiglia anche al lavoro di bibliotecaria, che è sempre stata considerata una professione femminile.
Michael Ondaatje: E l’uomo è il cacciatore-raccoglitore, che torna a casa con il cibo da cucinare.
Michel Ondaatje, Il cinema e l’arte del montaggio – Conversazioni con Walter Murch, Garzanti 2003

Anna: Non mi sento una regista-donna, una montatrice-donna. Più che sono una regista direi che faccio la regia, ed è una regia negoziata con un sacco di gente. Conseguenze del nome collettivo. Secondo te ZimmerFrei è maschio o femmina?

Massimo: È gender-fluid.

Antonio: A me Zimmerfrei arriva neutro. Se però poi vi penso tutti insieme per un attimo vedo te Massimo in mezzo a due Anne. Un Massese che ora vive in via Borgonuovo 2, a Bologna, di fianco alla casa natale di Pier Paolo Pasolini. La scorsa estate eravamo saliti sul tetto di sera a fumare una sigaretta.

Massimo: Se guardo indietro e ripercorro la mia storia lavorativa mi rendo conto che ho prevalentemente lavorato con donne. Registe, coreografe, musiciste, montatrici, tecniche, responsabili di produzione, insegnanti. Ora sto lavorando a un disco, che verrà pubblicato da una piccola label diretta da una donna giovane e formidabile, Silvia. Sono in contatto e sento costantemente le mie ex compagne e (quasi) tutte fanno ancora parte della mia vita e io della loro. Ho una figlia femmina con cui passo la maggior parte del mio tempo. Stare con le femmine è la cosa che preferisco e mi fa sentire fortunato. Ma mi ritaglio anche uno spazio quasi quotidiano, quello del pub, che è un mondo quasi esclusivamente maschile, dove si parla molto, si beve e si fuma e dove le donne sono una presenza marginale o semplicemente astratta, evocata.

Anna: Martina ci ha sempre chiamato le Zimmer (come le stanze, o le Anne). Anche adesso che siamo solo io e Massimo, con Anna R. che si dedica ad altri progetti a Bruxelles, direi che ZimmerFrei è di genere neutro, das Zimmer, sessuato ma neutro. Mi ricordo le considerazioni sui maschi e le femmine al dipartimento di cinema di Paris VIII – Saint Denis all’inizio degli anni 90. La mia maestra di montaggio alla moviola è stata una donna, ma era una che parlava poco e si teneva i segreti. Montare con la moviola è come guidare la macchina in montagna, niente graphic timeline, c’è una strada sola, lunga e tortuosa, da fare a marce basse. Il mio maestro di fotografia per il cinema è stato Renato Berta, il direttore della fotografia di Alain Resnais. Mi ha insegnato a preferire i cavalletti molto pesanti e a fare panoramiche lentissime usando il peso del corpo e le frizioni tirate. Per lui girare (in pellicola) era un’arte marziale e prevedeva uno specifico allenamento fisico. Il mio “maestro di computer” è stato un maschio, è vero, il mio primo colpo di fulmine Edi Bianco, un indiano metropolitano con tatuaggi tribali e dreadlocks. Con lui e con Davide Pepe, altro principe pugliese, mi è passata la paura delle macchine. Alla fine son balocchi. Comunque mi ha lasciata per la coreografa con cui lavoravo all’epoca, maledetto. E poi ho incontrato Massimo, e la mia amica-transfert è diventata Anna. Nicola mi rimprovera che il mio rapporto animista con i software e le macchine non è molto funzionale, ma io alla fine me la cavo abbastanza bene, anche se non aggiorno sempre tutto e non cambio formato appena ne arriva uno sul mercato.

Antonio: Nel cinema le immagini sono sempre legate una all’altra, quella che viene prima e quella che viene dopo e il tempo di visione ha una durata limitata. A volte ho la sensazione che alcuni registi vogliano rallentare il corso dei loro film e arrivare ad un’immagine fissa, magari con un unico suono. Penso alle inquadrature fisse di Ozu, gli schermi bianchi dei cinema di Sugimoto, la Spiral Jetty di Robert Smithson che più ti avvicini e più diventa piccola e allora certe immagini sono più vere dentro un libro e la mappa non è davvero il territorio e quindi è meglio andare o non andare a vedere le cose?

Massimo: Anni fa, in volo verso la Corea del Sud, risvegliandomi e guardando fuori dal finestrino mi è capitato di vedere il deserto del Gobi all’alba. Una pietraia infinta, tinta di rosso, una composizione arcaica, primitiva. In un altro volo, sopra Doha in Qatar, di notte, la città mi è parsa concepita per essere vista dall’alto, una geometria frattale, simile al pulviscolo poligonale in cui si trasforma la visione quando prendi l’acido. In entrambi i casi ho pensato che quei posti è meglio vederli dall’alto, sorvolarli, che quella magia della visione sarebbe evaporata al contatto orizzontale con il terreno. Come nella scena finale di Caché di Haneke, quando i titoli scorrono sullo schermo e si ha la sensazione che la camera ti abbia abbandonato e che il segreto contenuto nella narrazione non ti sarà mai rivelato, che resterà nascosto.

Anna: Con Stereorama avevamo in mente proprio quello, l’effetto-cinema contenuto nel teatrino visivo di un fotogramma stereoscopico e stereoacustico, un’immagine che da sola produce un suo tempo e un suono volumetrico di un ambiente, e che da ferma si espande nell’immaginazione, muovendosi nell’istante prima e nel dopo.

Antonio: Ho visto l’anteprima del vostro ultimo film Almost Nothing al cinema Anteo di Milano una sera con Ivan. C’è un momento nel documentario in cui le luci che illuminano un corridoio del CERN cominciano a frizzare e si ha la sensazione che un miracolo di particelle stia per avverarsi. Ho avvertito diverse volte quell’intermittenza sonora e luminosa nei vostri lavori, siano essi video, installazioni sonore, documentari, singole fotografie. Che cos’è quel cortocircuito? Immagino si verifichi ogni volta che accendete il vostro grande neon con la scritta Zimmerfrei…

Anna: In N.K. – Never Keep Souvenirs of a Murder, il primo spettacolo che abbiamo fatto insieme (tra il 1999 e il 2000, quando ancora non sapevamo come ci saremmo chiamati), c’erano due stanze d’hotel uguali divise da un muro e le due ospiti delle stanze, Anna e Anna, sentivano solo i suoni di là dal muro senza vedersi, ma facevano gli stessi percorsi nello spazio limitato della stanza. L’unica luce dello spettacolo erano dei tubi al neon ad accensione elettronica che facevano una luce quasi nera. Era tutto nero, beige e verde. I neon si accendevano con un suono dell’altro mondo, forse è proprio quella la sensazione di “animismo elettrico”. Il buzz elettrostatico faceva parte della partitura di tutto lo spettacolo, ed era il suono a far collassare una stanza dentro l’altra. Alla fine ci siamo chiamati come una scritta al neon: zimmer-frei-zimmer-frei. Era una scritta intermittente fuori da una pizzeria di Rivazzurra, Rimini.

Antonio: Siete mai stati sul tetto de l’Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia? Io ci sono stato con Francesca una sera di giugno di tre anni fa, appena dopo aver bevuto un pastis con ghiaccio alla caffetteria de La Cité Radieuse, mentre Francesca preparava i contenuti per la presentazione del suo libro Detour in Detroit. Sul tetto c’è una specie di schermo in cemento con quattro gradini. Sarebbe bello proiettare tutta la serie da Temporary Cities e attendere l’alba…

Anna: No, a Marsiglia siamo stati su un altro tetto, poco lontano dalla scritta sul muro che ha dato il titolo al film, la beauté c’est ta tête. Volevamo far vedere a Roberto e Ivan il Vieux Port dall’alto: il porto chiuso al mare e la città chiusa dalle montagne. Marsiglia è l’unica città francese dove possiamo dire “siamo tornati a casa”. A Marsiglia durante il film abbiamo passato tutto il tempo in rue d’Aubagne, senza sapere che di fronte al Mon Bar c’è la porta varcata dal Marchese de Sade nel 1772 (duecento anni prima della mia nascita), come Ivan ha scoperto nelle sue indagini micro-storico-geografiche.

Massimo: Nel periodo in cui giravamo i film della serie Temporary Cities la cosa che preferivo durante le riprese, era il momento in cui salivamo sul tetto di un palazzo per riprendere l’alba o il tramonto con una panoramica circolare. Ricordo il tetto di un palazzone socialista nell’Ottavo Distretto di Budapest, un momento perfetto, col sole che calava lentamente, noi in silenzio assoluto, la camera che girava, il ronzio monocorde della città sotto di noi. È dentro momenti come questo che ho trovato un po’ del senso delle cose che abbiamo fatto, che stiamo facendo e che, forse, continueremo a fare.

Antonio: Il 13 e 14 marzo allora ok al cinema Beltrade e da CLER il 15? Attendo la chiamata delle ragazze e ci confermiamo le date, il bar e i manifesti… Safari?

Anna: Safari sì, a luci spente al Beltrade.